martedì 27 novembre 2018

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, Due romanzi & Due autori

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Due romanzi & Due autori


Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus! Rieccoci in questa rubrica in collaborazione con Dark Zone. Oggi intervisteremo Fernando Santini e Daniele Batella che ci parleranno dei loro romanzi Sice e End of the Road Bar, come sempre dopo le interviste, in colori diversi, troveremo degli estratti dai loro libri... quindi, che l'intervista abbia inizio!


Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?

F.S. Come in tutti i romanzi della serie SICE i personaggi si muovono per l’italia. In questo caso l’azione ha luogo a Genova, Piacenza e Verona per l’indagine sui rifiuti e a Gioia Tauro e Roma per l’indagine sul killer scappato alla retata che ha chiuso l’indagine del precedente romanzo.

D.B. Il mio romanzo è ambientato principalmente in un locale, l’End of the Road Bar; la sua ubicazione è però incerta, si trova in una metropoli senza nome. La scelta è dovuta al mio desiderio di collocare un gruppo di persone in un ambiente accogliente che permettesse loro di raccontarsi, di riunire sotto uno stesso tetto le proprie disgrazie. I racconti degli avventori del bar, poi, spostano l’ambientazione da Roma a Mumbai, da Bristol a New Orleans, da Tokyo a San Francisco… 

Da cosa è ispirata l’ambientazione?


F.S. Per l’indagine sui rifiuti ho scelto di posizionarmi al Nord Italia perché siamo soliti pensare che il lo smaltimento illegale di rifiuti tossici sia un problema del Sud. Io, invece, credo che la pratica dello sversamento di liquami non risponda a logiche Nord-Sud ma che sia solo dipendente dal costo dell’operazione e visto che le fabbriche sono prevalentemente al Nord mi sono trovato a chiedermi se non fosse meno costoso fare pochi chilometri e disperdere i rifiuti vicino a dove sono prodotti. 

D.B. L’ambientazione, come l’idea generale del romanzo, è nata una mattina all’alba, dopo aver accompagnato un’amica a prendere il treno nella piccola stazione di un paesino umbro. Tornando a casa con gli occhi pieni di sonno mi sono accorto di un piccolo locale cui non avevo mai prestato molta attenzione: si tratta di un bar per ferrovieri, mezzo nascosto da una siepe poco curata. Il nome, “Il Capolinea”, ha fatto nascere in me una scintilla. Da lì, l’idea della “fine della strada” e del bar.


Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)

F.S. No. Quando ho pensato la storia ho scelto senza esitazione il periodo attuale. 

D.B. Beh, raccontando le vite di sette persone dai trenta ai settant’anni in realtà il romanza abbraccia diverse epoche, luoghi e momenti storici! Sicuramente il mondo distopico è una forte attrattiva e potrebbe funzionare anche nell’universo di End of the Road Bar!

Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?

F.S. Nella storia c’è un Marchese quindi ho già un piede nel passato…😊 Volendo essere seri, sì, la storia potrebbe svolgersi nel passato. Le concerie e le fabbriche di armi del medioevo potevano produrre rifiuti che sversati in un corso d’acqua potevano far morire delle persone. Se ci fosse stato un giovane principe amante dei propri sudditi avrebbe potuto incaricare dell’indagine il capitano delle proprie guardie. 

D.B. Certo, cambierebbero abiti e forse qualche abitudine, ma l’umanità è tale dall’inizio della sua storia: dinamiche come l’attrazione o la repulsione non mutano con i secoli.

Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?



F.S. Sì e forse in questo caso sarebbe più facile. Immaginando città verticali che sfidano il cielo e i rifiuti che si accumulano, pericolosamente, nel sottosuolo.

D.B. Sì, allo stesso modo. Probabilmente una storia come la mia avrebbe ancora più senso in un mondo distopico, post-apocalittico. Un mondo in cui la speranza diventa merce di scambio e il ricordo un bene prezioso per concludere affari.


Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?

F.S. Il prossimo romanzo della serie SICE, già scritto e che ora è in fase di lettura ai beta reader, è ambientato a Roma, Milano e Torino.
A breve inizierò a scrivere un thriller ambientato negli Stati Uniti e il luogo di azione saranno il Nevada e la California.
 

D.B. Venezia, per me forse la città più bella del mondo; l’Egitto, una grande passione che nutrivo da bambino, mai sopita. Infine un pianeta sconosciuto, un corpo celeste che non sia la Terra: sarebbe una sfida interessante intrecciare una trama al di là della nostra atmosfera.


Cominciamo parlando del romanzo di Fernando! 
Ecco a voi la copertina di Sice

SICE – si ricomincia lì dove si era conclusa la storia precedente.

Marco Gottardi entra nel palazzo che ospita gli uffici della Squadra Investigativa Crimini Efferati con un viso su cui risalta uno sguardo duro. Arrivato nell’openspace richiama l’attenzione dei suoi collaboratori.
«Ragazzi tra dieci minuti vi voglio in sala interrogatori.»
I poliziotti presenti si guardano tra loro sorpresi.
«È successo qualcosa? Hai una faccia arrabbiata», gli domanda Vincenzo.
«Sì, sono incazzato nero. Tra poco ti dirò tutto. Non posso parlartene prima altrimenti rischio di sfogarmi e non riuscirei a trasmettere alla Squadra tutta la rabbia che ho in corpo.»
«Va bene. Li raggruppo e ti aspetto.»
Marco si siede alla scrivania e apre il primo cassetto. Prende la cartellina che c’è dentro. Scrive un appunto sul foglio che contiene già alcune sue riflessioni. Quindi richiude il tutto e si dirige in sala interrogatori.
«Ragazzi, voi sapete bene quanto io apprezzi il vostro lavoro e quanto sono soddisfatto per quello che siamo riusciti a fare per chiudere il caso di Kaled. Devo, però, dirvi che in quell’indagine è accaduta una cosa che mi ha fatto incazzare in maniera incredibile», dice Marco guardando i presenti negli occhi. «Voi tutti sapete che un gruppo di persone, che si è presentato con il nome di ARCO, ha condotto una specie di indagine parallela alla nostra, utilizzando mezzi illegali per ottenere i propri risultati.»
«Vero, ma tutto sommato hanno solo strapazzato dei bastardi», commenta Teresa.
«Quella è violenza e non giustizia. La legge prevede che le regole devono essere rispettate, soprattutto da parte di chi, come noi, lavora per trovare chi delinque», le risponde Davide.

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Ora invece è il turno di Daniele!
Qui sopra potete ammirare la copertina di End of the Road Bar

I
ESTRATTO

L’End of the Road aveva un aspetto decadente, trasandato, eppure stranamente accogliente, come se le mura respirassero. Sembrava un bar con una storia da raccontare. Innanzitutto era pervaso da un odore dolciastro e indefinibile, un misto di tabacco, acqua di rose e liquore all’arancia; il profumo si adagiava sui pochi tavoli sparsi per la sala, ognuno dotato di un piccolo abatjour adornato di tintinnanti perline rosse. Non si notavano a prima vista finestre, data la vernice scura che rivestiva i muri. Sotto lo strato di pigmento si intravedevano le volute di una ricca boiserie, che abbracciava l’intero spazio del locale. Il bancone, il trono di Penny, era il mobile più bizzarro del bar. Era grande, sproporzionato, sembrava che il suo legno scuro e lucido, tormentato dalle tarme, non fosse stato lavorato per quell’uso finale; appariva più come un vecchio scrigno, una cassapanca di dimensioni irragionevoli o la panchina di un gigante. Non stonava con il resto dell’arredamento, ma certo richiamava l’attenzione sulla tiepida luce che illuminava le etichette degli alcolici alle sue spalle. C’era un unico, grande lampadario di vetro brunito al centro dell’End of the Road; la sua luce era sempre soffusa, come se non avesse fretta di spargere fotoni nell’aria. Sarebbe stato più adatto al foyer di un teatro che alla sala di un vecchio bar, a dire il vero. A Penny piaceva. Lo osservava dal basso, mentre lucidava i bicchieri e attendeva che una delle lampadine facesse i capricci, lampeggiando nella sua direzione. A quel punto rispondeva con un occhiolino sornione: lei e la luce se la intendevano alla grande. Ne avevano viste parecchie insieme, Penny e il lampadario di vetro brunito.

II
ESTRATTO

Hiroe era nata a nord-ovest di Tokyo, in un ambiente illibato, fatto di case arroccate su rocce che si ammantavano di fiori ogni primavera, colorando i verdi prati montani di stelle bianche e blu. A quel tempo la vita era molto semplice; le mika erano spartane, ma confortevoli; la famiglia al completo andava a scaldarsi al centro della costruzione, dove un fuoco scoppiettante illuminava i volti sereni dei nonni di Hiroe. Da bambina passava gran parte del suo tempo con Toshiharu, il figlio dei vicini. La loro era una vita spensierata, sempre a correre per i prati lungo il crinale che li separava dal cielo. Hiroe amava le storie degli antichi dei shinto che le raccontava suo fratello Tadashi. Lui aveva studiato a Tokyo, era l’orgoglio dei genitori; poi, però, a causa della guerra, era dovuto tornare al villaggio, non poteva combattere insieme all’esercito dell’imperatore perché era nato con una gamba distrofica. Quindi, quando si faceva sera e la piccola Hiroe era stanca di giocare o raccogliere la legna per il fuoco, si accoccolava sulle ginocchia di Tadashi, che le raccontava di Amaterasu Omigami, la splendida dea del sole, che nascose la sua bellezza e la sua luce in un grotta, e dovette essere imbrogliata con l’utilizzo di uno specchio che le mostrasse il suo splendido riflesso per uscirne. Hiroe immaginava gli abbaglianti abiti di purissima seta che fluttuavano accanto ai lunghissimi capelli di corvo della dea, e danzava al buio illuminato dalle stelle, fingendo di indossare kimono sgargianti e acconciature complesse.
III
ESTRATTO

Milo rimase impressionato dal clima umido che lo avvolse appena mise piede fuori dal volo intercontinentale che lo aveva condotto alla sua bramata nuova vita a Mumbai; l’aria calda e densa era carica dell’odore di spezie e petali fermentati, come se un albero di magnolia avesse lasciato cadere i suoi boccioli in un enorme catino d’acqua e da esso si sprigionasse l’essenza dolciastra dei fiori in infusione. La vita era diversa rispetto a quella che i rigidi austriaci conducevano per le vie ordinate di Salisburgo: i mercati, le piazze affollate, il quartiere economico con i suoi grattacieli, il rumore dell’oceano che dalle spiagge di Goregaon veniva trasportato dal vento fino alle guglie vittoriane delle costruzioni coloniali, i tetti delle innumerevoli automobili che formavano un confuso e colorato mare di metallo rovente, che rifletteva i bollenti raggi del sole in ogni direzione… tutto era rumore, luce, chiasso armonico, brulicare di vita. Un mondo in perpetuo movimento. Una metropoli pulsante e antica, monumento unico all’unione tra la storia nobile e arcaica degli autoctoni e l’ordine altero portato dal colonialismo inglese. Milo non aveva mai visto un luogo più bello.



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Ciao e alla prossima!

*Enrico*

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