Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Un Maggio tutto da leggere
Ciao a tutti! Bentornati su Codex Ludus! Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, la rubrica in collaborazione con Dark Zone è tornata, di nuovo, dopo pochi giorni... vi siete persi il post precedente? Correte a recuperarlo!
Ma parliamo di oggi, qui con noi (virtualmente) ci sono Filippo Mammoli, Maria Laura Caroniti e Giuseppe Calzi.
Li intervisteremo, e poi leggeremo gli estratti dei loro libri.
Questo maggio è ricco di letture, non è fantastico?
DOMANDE PER DARK ZONE
Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?
F.M.: Il romanzo è ambientato quasi esclusivamente a Baton Rouge, in Lousiana, a parte una piccola parentesi a Boston.
Lo ho scelto perché avevo bisogno di uno stato con un carcere di massima sicurezza e che applicasse ancora la pena di morte.
M.L.C.: La Casa de la Abeja è ambientato in Guatemala, Messico, Stati Uniti e Italia.
Non ho scelto l’ambientazione, ho seguito le vite dei personaggi e, soprattutto, quella di Vitalba, la protagonista.
G.C.: Un dolore oscuro è ambientato sul confine tra gli Stati Uniti e il Canada, nello stato del Maine. Si tratta di luoghi che mi hanno sempre affascinato e sui quali ho fatto delle ricerche approfondite, sia per interesse personale, sia per la costruzione verosimile del romanzo.
Da cosa è ispirata l’ambientazione?
F.M.: L’ispirazione nasce da un paio di libri che avevo letto poco prima di iniziare a scrivere questo romanzo. Credo però che a livello inconscio abbiano agito anche alcuni film di ambientazione carceraria.
M.L.C.: Nel 1992, su una pubblicazione per adolescenti, vidi in copertina Rigoberta Menchú Tum, la pacifista guatemalteca che ottenne quell’anno il Premio Nobel per la pace "in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene".
Mi appassionai alla poesia e alla letteratura del Centro e del Sudamerica e, quando conobbi le opere di Pablo Neruda e Isabel Allende, scoprii la storia del Cile; per la prima volta mi resi conto di quanto potente fosse la parola scritta se, dopo anni, oceani e Paesi, delle pagine erano state in grado di far fiorire la coscienza di una ragazzina. Allora ripensai al Guatemala di Rigoberta Menchú e mi resi conto che, tranne Miguel Asturias, non conoscevo altri. Pensai che sarebbe stato bello che qualcuno parlasse della storia di quel Paese, della sua politica, della guerra civile che lo ha annientato in pieno sviluppo. La fiction, a volte, è più potente della saggistica.
G.C.: La scelta delle caratteristiche descrittive delle ambientazioni sono ispirate dall’atmosfera della storia. Il mistero nel quale si entra leggendo Un dolore oscuro è accompagnato dagli scenari dark e cupi delle ambientazioni, ricchi di foreste, dal clima piuttosto freddo, un ambiente per certi versi silenzioso e introspettivo.
Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo?
F.M.: Ad essere onesti no, non ci ho mai pensato. I temi trattati, soprattutto la sete di conoscenza dell’uomo, il suo desiderio di superare o spostare la barriera della morte, sono degli universali della natura umana, indipendenti dal tempo e dal luogo. Il conflitto che vede scienza e razionalità da una parte, e fede con la mentalità religiosa all’altra, resta anch’esso valido dal medioevo a oggi. Le ricerche scientifiche di avanguardia sulla biologia molecolare e quantistica che il protagonista ci racconta nel suo diario, risultano tuttavia difficili da immaginare in altro tempo al di fuori del nostro. Forse in un mondo distopico si potrebbe riscrivere qualcosa di simile.
M.L.C.: No, la storia raccontata ne La Casa de la Abeja rende appieno il tempo storico in cui è collocata.
G.C.: Sinceramente no. Non vedo Un dolore oscuro con un vestito diverso, almeno a livello di genere. La trama e le tematiche trattate invece si possono sposare bene anche se collocate in un tempo passato.
Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?
F.M.: Non credo potrebbe funzionare, a meno di ricalibrare le scoperte scientifiche al livello dell’epoca in cui si vorrebbe trasporre. Per il resto i personaggi, le situazioni e i conflitti che ne scaturiscono potrebbero restare credibili ed efficaci.
M.L.C.: Sì, ed è esattamente quella riportata nel romanzo.
G.C.: Come accennavo sopra, direi di sì. Le tematiche e l’atmosfera dark del romanzo potrebbero essere collocate senza problemi in epoche passate, per esempio a cavallo tra il ‘700 e l’800. Diciamo che è un’idea intrigante.
Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?
F.M.: Chissà, forse come per la trasposizione nel passato, ‘Mutatis mutandis’ potrebbe reggere.
M.L.C.: Ho immaginato il sequel, ma è una storia che rimarrà confinata nella mia testa.
E, purtroppo, alcune dinamiche raccontate tra le pagine del romanzo sono attualissime, malgrado i tempi moderni.
G.C.: Scrivere questa storia nel futuro significa in un certo senso associarla a un genere diverso, puntando sul fantasy o sulla fantascienza. Direi di no, non lo vedo come un buon esperimento.
Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?
F.M.: Livorno, perché mi considero livornese di adozione. Amo il mare e l’ironia feroce e sagace dei livornesi.
Firenze, perché è la mia città e so che avrei ancora molto da scoprire. Ambientarci un romanzo potrebbe essere un buon modo per vederla sotto una prospettiva nuova.
Praga, che ritengo una delle città più belle del mondo. Il suo fascino e l’aura di mistero potrebbero essere ideali per un thriller.
M.L.C.: Il prossimo romanzo, che vedrà la luce a fine anno, sarà ambientato a Provincetown, Cape Cod, negli Stati Uniti.
Tra le prossime ambientazioni mi piacerebbe ritornare in Francia, Paese in cui ho ambientato il mio romanzo d’esordio, “Generazione Bataclan”; poi vorrei scoprire il Marocco e avere finalmente il coraggio di parlare della Sicilia in cui sono nata e vissuta.
G.C.: La Parigi dell’800 sicuramente. Misteriosa, conturbante e dark quanto basta per ottenere un buon thriller\horror.
La foreste del Sudamerica. Sono zone in cui il senso del mistero non manca di certo.
La Transilvania di inizio ‘900. La suggestione del filone gotico e in particolare del Dracula di Bram Stoker, che ho letto rimanendone innamorato, è forte.
Vi siete già fatti un'idea dei nostri tre autori? Allo scopriamo insieme se siamo stati accurati o meno nel crearci la nostra immagine mentale, leggiamo quindi degli estratti da Oltre la Barriera di Filippo Mammoli.
1. Dal diario di Lorenzo
La cordialità non è una dote molto comune tra le guardie carcerarie e in effetti spesso sono costrette a ricorrere alla forza per sedare risse o accenni di rivolta.
Come è accaduto ieri mattina, nei bagni. Non ho capito subito quello che stava succedendo, perché come sempre la musica dei cori gospel ad alto volume copriva le voci. Un detenuto molto giovane, credo appena diciottenne, si è rifiutato di piegarsi alla richiesta di Harris, un quarantenne temuto da tutti, di lavargli la schiena e soprattutto il fondoschiena.
«Io non pulisco il culo nemmeno ai mocciosi, figuriamoci a un vecchio grassone come te!» gli ha risposto Rupert, il ragazzo, a muso duro. Forse non aveva idea di quello che gli sarebbe successo. O forse ce l’aveva, ma non voleva obbedire, sapendo che poi avrebbe dovuto farlo per sempre.
La rissa è scoppiata in un attimo e io sono stato tentato dal mio istinto di andare avanti per aiutare il ragazzo. Per fortuna, dopo il primo passo, sono stato scaraventato a terra da un altro detenuto.
«Fermo, professore, non è roba per te. Stanne fuori che è meglio» mi ha detto senza neanche degnarmi di uno sguardo.
2. Dal diario di Lorenzo, cella punitiva
Appena richiusa la porta della cella d’isolamento ho capito di non avere scampo, di essere più prigioniero che mai. Per diversi minuti, non saprei dire esattamente quanti, mi sono sentito piccolissimo, schiacciato da tutto e da tutti. Sentivo le pareti della cella chiudersi su di me fino a stritolarmi. È iniziata a mancarmi l’aria. Ero solo nell’universo e stavo sprofondando in una claustrofobia soffocante, con il cuore che batteva così forte da scoppiarmi in petto. Al culmine di questo autentico attacco di panico ho sperato di morire per porre fine a questa insopportabile sofferenza e a quest’assurda storia.
3. Susan visita Lorenzo in carcere.
Sono qui, nella sala dei colloqui della prigione di Stato della Louisiana, in attesa di Lorenzo. Sento addosso gli occhi delle guardie armate. Stanno solo facendo il loro lavoro, come anche Edward avrà fatto centinaia di volte. Ma non riesco ad abituarmi. Fin qui è andato tutto bene. Come mi aveva assicurato Francis Chamberlain, nessuno si è preso la briga di verificare la mia identità. Solo controlli visivi e perquisizioni. Ma quando hanno chiuso l’ultima inferriata dietro le mie spalle, ho provato una strana sensazione. E non era piacevole.
Ecco Lorenzo, lo stanno portando da me. È più alto e magro di come lo immaginavo e poi non porta occhiali. Chissà perché mi ero fatta l’idea che li avesse.
«Buongiorno.»
«Buongiorno signora... avvocato... Hutton» ha detto leggendo il cartellino che ho spillato sulla giacca. «Immagino che lei sia l’aiutante dell’avvocato Chamberlain. Le devo dire per onestà che avrei preferito parlare con lui, anche se ’preferire’ appartiene a una categoria di verbi che sento molto distanti da me in questo momento.»
«Non ho argomenti per darti torto e non voglio stare qui a dire che ti capisco. So benissimo che è inutile. Non sono un avvocato, non mi chiamo Vanessa Hutton e non lavoro per Francis Chamberlain. Sono Susan Taylor e questo falso cartellino me lo ha procurato l’avvocato che è un vecchio amico di Edward, per avere modo di ottenere un colloquio con te restando in incognito.»
Ed eccoci qui invece con La Casa dela Abeja di Maria Laura Caroniti.
L'autrice ci ha avvisato in anticipo che un nome è stato oscurato per evitare spoiler, quindi non preoccupatevi leggete tranquillamente!
1) (Guatemala)
La pioggia si stava addensando sui monti in nuvole nere e grasse. Ovunque la vegetazione si apriva in spazi umidi di rami affastellati e pietre grigioverdi nascoste dai primi accenni della notte. Le piantagioni s’indolenzivano sotto la calura compatta.
Laggiù, da qualche parte nella vallata, un asino ragliava.
La Casa de la Abeja, com’era conosciuta dentro e fuori il paese, era distante da Escuintla una decina di chilometri e poco meno della metà dal villaggio, in un’altura da cui si distingueva in lontananza uno scampolo del vulcano Pacaya ; nel cortile erano state lasciate alcune ceste con del cibo, tortillas e guacamole, coperte da stracci. Diverse piante rampicanti bivaccavano nel portico. Una sorgente di luce tremula compariva da dietro i vetri chiusi, ma restava serrata nel buio delle strisce nere dipinte sui muri calcinati e sfiancata su quelle che il giorno scopriva gialle.
Vitalba Suárez era nata lì.
2) (Messico)
El Distrito Federal.
El De-Efe.
El Monstruo.
Ognuno chiamava Città del Messico come voleva, chilangos e stranieri, ma restava una città dall’anima di fumo e altitudine che non sempre ricambiava l’amore, ma di sicuro stregava. C’era un ritmo nelle sue strade, un tamtam di arte e avanguardia che contagiò Vitalba di una voglia febbrile.
Il caos le riempì gli occhi, le mani ripresero a muoversi, a fissare la tela sui supporti come all’inizio, a scegliere i colori, tornò a vivere. Usciva di casa qualche ora dopo ***. E camminava per quelle strade senza provare paura, aprendosi un varco tra pendolari frenetici, turisti confusi, venditori ambulanti, strilloni, musicisti di strada. Poi scendeva nella pancia del Mostro, prendeva la metro incantandosi sui visi che si stipavano nella corsa e, quando risaliva in superficie, camminava ancora fino a una piazzetta, dove nella tarda mattina si ritrovavano artisti e scrittori. Nessuna accademia. Arte. Post estridentismo, post surrealismo. Post churrigueresco. Post tutto.
Il gruppo che si riuniva all’aperto del Café Azul la fiutò, inglobando i suoi silenzi nelle discussioni che accendevano la quiete sonnolenta di quel pezzo di bohème capitolina. Erano uomini e donne, pittori come lei, e scrittori. Una fotografa di origine italiana provò a ritrarla mentre dipingeva, ma la paura che lesse in quegli occhi verdi le disse più di mille parole e abbassando la Graflex le chiese il permesso di poterle fotografare le mani, solo quelle, mentre domavano il colore.
3) (Italia)
Il taxi lo riportò a casa nel traffico languido della domenica milanese. I Navigli lo riconobbero.
Ripa di Porta Ticinese. Calura e umidità di una mezzanotte smorzata dalle luci dei lampioni.
Anselmo non era stipato dai soliti turisti per via dell’orario.
Laggiù, l’argine murato della vecchia Darsena verniciato di tags multicolori attendeva la ripresa dei lavori interrotti per la riqualificazione dell’area, e cespi di verde spuntavano nei pressi della vicina Conchetta.
Ed infine Un Dolore Oscuro, che detto così sembra qualcosa di integrato con il nostro discorso, ma in realtà è il libro di Giuseppe Calzi... come prima potete ammirare la copertina qui sotto.
1
Regnava una tranquillità immobile, spezzata solo dal ritmico ululato del vento e dal fischio monotono che la brezza provocava accarezzando la carrozzeria dell’automobile.
Nonostante quella calma quasi surreale, il cielo era scuro e pesante, tanto da rendere necessario l’uso dei fari già a metà pomeriggio. I fasci di luce si stagliavano sullo sfondo, ritagliando tra gli alberi del bosco ombre sfumate. In luoghi come quello, non ancora deturpati da un’edilizia selvaggia e distruttiva, l’autunno amava presentarsi in modo pittoresco. Affascinanti giochi di colore salutavano la conclusione della bella stagione e il paesaggio tutt’attorno creava un’atmosfera fiabesca. Il freddo contribuiva a rendere quell’ambiente unico, immobile nella sua bellezza.
Dave era concentrato sul percorso, lanciando l’auto a una velocità relativamente sostenuta. Su quella strada, che aveva percorso centinaia di volte, era davvero improbabile imbattersi in una pattuglia della polizia appostata con una qualche apparecchiatura per il rilevamento della velocità.
Di tanto in tanto l’immobilità esterna si agitava, a causa del vento che lanciava manciate di foglie sul parabrezza. Probabilmente, di lì a poco si sarebbe scatenato un violento temporale.
«Sei stanca?»
«Un po’ sì. E ho un gran mal di testa.»
Dave le lanciò uno sguardo, accompagnato da un sorriso di comprensione, ed Ellen lo ricambiò con una tenera carezza sul viso. Quando uno di quegli odiosi mal di testa le bussava alle tempie, diventava difficile persino parlare.
«Chiudi gli occhi. Abbiamo ancora un paio di ore o giù di lì. Rilassati, abbassa il sedile e prova a dormire un po’. Forse dopo ti sentirai meglio.»
La moglie gli posò una mano sulla spalla e con aria distrutta gli chiese: «Tu non sei stanco? Non hai bisogno di compagnia per il viaggio?»
«Non preoccuparti. Dormi tesoro. Ci aspetta un periodo duro, quindi avrai bisogno di tanto riposo, io ce la farò. Se non ti dà fastidio, accendo la radio.»
«Fai pure» concesse Ellen. «Allora io riposo, vedo se mi passano queste dannate fitte alla testa.»
La donna abbassò il sedile producendo quel tipico ronzio meccanico di ingranaggi in movimento. Dopo averne regolato l’inclinazione in una posizione che parve darle un minimo di sollievo, si lasciò sprofondare nell’abbraccio avvolgente del sedile in pelle e si rilassò. Le bastarono pochi minuti per cadere in un sonno profondo.
2
E sognò.
All’inizio furono solo sogni confusi, vaghi e privi di una certa sequenza logica, che si portavano dietro solo immagini sbiadite, apparente frutto di ricordi antichi, ricordi di un passato piuttosto lontano. Piccoli fatti della sua fanciullezza scivolarono via veloci su uno sfondo irreale.
Poi le immagini si fecero più nitide. Un lungo sogno intenso, non più frammentati fotogrammi sconnessi, lo assorbì.
Avanzava lento su una mulattiera malconcia. Camminava piano, disorientato, guardandosi attorno nel vano tentativo di cogliere un aspetto famigliare in quell’ambiente umido e fresco. Non c’era nessun punto di riferimento a lui noto lì vicino, o almeno così gli parve in un primo momento. Solo una ricca e disordinata vegetazione cingeva a destra e a sinistra il sentiero. Proprio così, ora si trattava di un sentiero. A una decina di passi circa, quella che all’inizio era stata una comoda mulattiera andava restringendosi in un sentiero. Arbusti e cespugli di vario genere e forma si protendevano verso l’alto a formare una volta, ricreando una sorta di tunnel.
Non sentiva freddo, nonostante il buio che gravava sul bosco fosse da brividi. Alcune stelle luminose spiarono attraverso i solchi della volta floreale.
Seppure di poco, Dave aumentò il passo...
… va bene per di qua. Adesso dovrebbe esserci… eccolo.
E raggiunse un bivio e svoltò a sinistra, seguendo un sentiero di erba calpestata. Si fermò, aveva sentito qualcosa. Un movimento, un fruscio. Gli sembrò che quell’aria immobile fosse animata da un soffio leggero, un alito di vento invisibile accompagnato da un movimento appena percettibile delle fronde più leggere. Poi di nuovo calma, immobilità assoluta.
Tutto era buio. E troppo silenzioso.
Proseguì per quel passaggio teso nella vegetazione che il chiarore lunare non riusciva a rischiarare.
Dovrei esserci quasi.
Si stava avvicinando a qualcosa, forse un oggetto o magari un luogo. Non aveva idea di cosa si trattasse, ma quell’ambiente selvaggio, quel luogo buio non gli era completamente nuovo. Nel sogno si stava lasciando trasportare dall’intuito, dalle sensazioni e forse, se lo sentiva che era proprio così, da un vecchio ricordo.
Poi, all’improvviso, il silenzio si frantumò.
Non ne era certo, ma era improbabile che si trattasse di un animale notturno. Sembrava piuttosto…
Mantenendo vigile l’attenzione sul rumore, Dave tornò ad avanzare. Laggiù in fondo, uno squarcio nella vegetazione proiettò alcuni timidi raggi lunari sull’erba ad alcuni metri dai suoi piedi. L’uomo vi si diresse, sempre più ispirato, apparentemente prossimo a un ricordo che invece non sarebbe tornato tanto presto.
Il rumore alle sue spalle riprese e questa volta non cessò. Invece si rafforzò, quasi che si fosse fatto più vicino. Sarebbe stato difficile ora avere dei dubbi sulla natura di quei movimenti.
3
Cominciò a fuggire angosciato, anticipando le intenzioni di quel colosso. Dopotutto quello era il suo sogno, e ciascuno nei propri sogni sembra che possa intuire in anticipo ciò che avverrà poi. Pure negli incubi purtroppo risultava essere spesso così. Gli sembrò di avere corso per miglia, seppure trattenuto da un invisibile elastico di dimensioni spropositate, tanto da sentire la fatica del proprio cuore rintronargli nella testa, tanto da fargli pulsare gli occhi di dolore. L’aria che inspirava avidamente gli bruciava nei polmoni.
Quando si voltò, la mano gigantesca era ancora più vicina, incombente sulla sua minuscola figura. L’unghia dell’indice di quel mostro si appoggiò sul polpastrello del pollice; i muscoli delle dita si contrassero. Come un bambino divertito che gioca a biglie su una spiaggia, fu vibrato un colpo violento che sollevò un enorme quantità di terreno scuro.
La preda del gigante proruppe in un urlo che risultò muto e rimase sepolta dalla terra. Quando poi riaprì gli occhi, suo malgrado era ancora nel sogno, sotto Dio solo sa quanti metri di terra fredda. Accanto a lui, il corpo di un angelo riluceva di una luce accecante ma incantevole: vi riconobbe il volto di Ellen. Quel volto, che a poco a poco appariva sempre più distinto nell’aurea di splendore, dava l’impressione di essere spaventato. Nulla si mosse, tranne quelle bellissime labbra. Tutti i rumori all’interno dell’incubo suonavano muti, ma quella candida voce pronunciò: «Grande è la porta e la strada che conduce alla morte. Piccola è la porta e stretta la via che conduce alla vita».
Dave sbarrò gli occhi di soprassalto e si ritrovò nella propria abitazione. Non si accorse subito che l’incubo non era ancora terminato. Si alzò a sedere di scatto sul letto matrimoniale della loro camera, al piano di sopra. Avvertì la gola riarsa fiammeggiare dalla sete, scese dal letto e si incamminò a passo svelto verso la porta chiusa della stanza; la aprì e si ritrovò nella camera d’ospedale di Ellen. Sua moglie era appena morta, ma appariva già in avanzato stato di decomposizione. Quel che rimaneva della donna si tirò su a sedere e gli sorrise, mostrando brandelli di carne livida al posto delle labbra.
«Piccola è la porta e stretta la via che conduce alla vita...»
Quella visione fu di una tristezza lacerante. Dave scappò, oltrepassando di nuovo la soglia della stanza della clinica. Corse lungo un interminabile corridoio buio. Passò accanto a se stesso, in piedi immobile davanti a un televisore acceso nella notte, e riconobbe il volto di Andrew Barkley. Passò di fronte a un muro su cui si stagliava un’ombra disumana, dagli occhi fiammeggianti. Continuò a correre, ma questa volta angosciato dal rumore di piccoli passi veloci alle sue spalle.
La grande porta della morte.
Senza fermarsi, si guardò alle spalle ma non distinse nulla, della ricca vegetazione aveva preso il posto del lungo corridoio di cemento. Si sentì graffiato e straziato dai rami che si intrecciavano lungo il sentiero.
Ellen, non sono riuscito a fare nulla per te.
Il cuore danzava furente senza sosta.
Continuò a correre disperato attraverso una natura ostile, incalzato da quello scalpiccio, sempre più vicino.
Devo trovarla, deve essere qua da qualche parte.
TUM, TUM, TUM… a una frequenza insostenibile.
Finalmente trovò l’apertura attraverso la vegetazione e la superò...
Devo trovarla, è qua attorno.
...portandosi sulla sponda asciutta e ghiaiosa del fiume, lo stesso corso d’acqua che aveva trovato nel sogno con la piccola Lucy Daniels. Solo allora si accorse di essere scalzo. Sentì la liscia pelle delle piante dei piedi lacerarsi sui sassi taglienti. La piatta superficie di acqua era lì davanti a pochissimi passi da dove si era lasciato cadere dolorante nell’altro sogno, ma da quella posizione non riusciva a vedere Ellen.
Devo riuscire a capire dove indica, lei vuole che io trovi quella porta.
I passi felini alle sue spalle deviarono, puntando verso il letto del fiume. Compirono un ampio semicerchio e poi tornarono a puntare l’uomo, questa volta da una posizione frontale.
Dave non voleva rialzare il capo, non voleva vedere cosa fossero quei passi. Percepì che quel posto era vicino, lì da qualche parte, e poteva rappresentare un rifugio, una protezione. Ma dove? Di quale posto si trattava?
Ha una porta ed Ellen vuole che lo trovi.
Dave non ricordava dove e quando l’aveva già visitato, ma sapeva con certezza che quel posto avrebbe potuto salvarlo.
E anche oggi il nostro post si avvia alla conclusione, avete avuto una buona lettura? Cosa pensate dei nostri autori e delle opere? Fatecelo sapere con un commento.
Ora devo salutarvi, ciao e alla prossima!
*Enrico*
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