Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
L'Autunno è cominciato
Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus, dopo svariati mesi rieccoci qui con la nostra rubrica Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi in collaborazione con Dark Zone.
Oggi intervisteremo Luigi Carrozzo e Mariachiara Moscoloni che ci parleranno dei loro rispettivi romanzi Il Pane dei Morti e Il Sigillo di Lucifero.
Che l'intervista abbia inizio!
Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?
Da cosa è ispirata l’ambientazione?
Riesci a immaginare la tua storia nel passato?
Riesci a immaginare la tua storia nel futuro?
Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?
- L’appartamento del protagonista. Estratto dal capitolo 1
La luce fioca di una lampada a stelo. Un lungo divano bianco di finta pelle, troppo lungo per il soggiorno di pochi metri quadrati dove è stato piazzato. Sulle mensole piccole sculture di ceramica; alle pareti fotografie di vedute in bianco e nero. Un quadro alle spalle del divano, la serigrafia di un’immagine astratta, linee geometriche in varie tonalità di grigio. Le serrande abbassate. Il puzzo della cena che ancora ristagna nell’aria. L’appartamento riposa. Respiri lenti e profondi nelle stanze da letto.
Il colore dominante è il bianco. Secondo alcune tradizioni orientali, il bianco è il colore del lutto. Il colore dei fantasmi.
Sul divano c’è un uomo.
Guarda fisso davanti a sé. Il televisore è spento. Gli elettrodomestici ronzano, tossicchiano, fanno il loro dovere anche di notte, quando tutto tace, quando tutti dormono.
L’uomo si alza in piedi, si stiracchia, prende un lungo respiro. Comincia un giro di perlustrazione. Sfiora il tavolo da pranzo, si affaccia in cucina. Scosta una tenda, impugna la maniglia della portafinestra che dà sul terrazzo. La scuote. È sigillata. Si inoltra nel corridoio.
Si ode, ovattato, un accesso di tosse grassa, catarrosa. Proviene dall’appartamento vicino. Lì vive una donna anziana, sola.
Un sibilo improvviso. Una voce luciferina fa sgranare gli occhi all’uomo.
«Lasciaci entrare.»
- Il casolare
Nei pressi della cascina tutto è terreno smosso, zolle grigie, morte, fangose. La facciata sembra quella di un edificio religioso. Si apre davanti ai due ragazzi in modo inquietante. Il colore itterico del tufo a vista. Quello che una volta doveva essere un giardino ora è del tutto rivoltato, smottato. Intorno, i resti di un muricciolo a secco. C’è puzza di muffa; proviene dalla terra stessa, dai crateri di quel suolo irreale, lunare. Il sole è basso all’orizzonte, avviato inarrestabile sul declivio del tramonto. Il casolare si staglia controluce, una piccola cattedrale diroccata nel nulla, a ridosso della città, a ridosso della vita.
Nicholas e Simone si stringono nei loro giubbotti.
Sulla facciata, a destra e a sinistra del portone d’entrata, spiccano i graffiti, parole rosse di vernice spray. “Hail Satan” su una parte, sull’altra tre cifre, “666” e il disegno di una croce rovesciata. Il legno dei battenti è marcio. La serratura è saltata. Sulle ante sono incise altre croci rovesciate e stelle a cinque punte inscritte in un cerchio. Poi cifre e nomi incomprensibili.
«Certo che mette paura» afferma Nicholas anticipando l’amico. «Entriamo lo stesso?»
Simone annuisce poco convinto.
- Il magazzino-sottoscala, la prigione
Comincia la discesa. Appena lascia la presa, la porta si muove, quasi sospinta da una mano invisibile. Andrea la afferra al volo prima che si chiuda. Nota in alto un braccio idraulico. Si accorge poi che dall’altro lato del battente, all’interno, verso i gradini, manca del tutto la maniglia. Se la porta si fosse chiusa, sarebbe rimasto imprigionato.
Alla fine della rampa si trova in un sottoscala molto ampio. Forse un tempo quella sala era utilizzata come magazzino. Da terra il soffitto è insolitamente alto. La luce – troppo flebile per permettere una piena visibilità – penetra da piccole finestre che, all’esterno, sono al livello della strada. Il pavimento è ricoperto di fango, muffa.
Prende il suo smartphone e attiva la funzione torcia. Intravede un disegno sotto lo strato di mota. Una stella a cinque punte. Un pentacolo che gli porta alla mente il signore del male supremo, il diavolo. Su ogni vertice un ammasso solido, scuro, informe. Andrea si accuccia. Osserva quell’agglomerato che sembra plastica. Lo tocca. Lo scalfisce con l’unghia del pollice. Cera. Sembra il luogo di una cerimonia, di un sabba.
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Ora invece parliamo de "Il Sigillo di Lucifero", del quale potete ammirare la copertina qui sotto... e non dimenticatevi di proseguire con la lettura!
Certamente una wunderkammer era un luogo insolito per un incontro amoroso, eppure la regina e il cardinale Decio Azzolino si incontravano spesso nel gabinetto delle meraviglie di Athanasius Kircher.
Lì, fra svettanti obelischi che intervallavano gli spazi, dando movimento all’ambiente, era conservata una delle più imponenti collezioni di mirabilia dell’epoca.
Nicchie stipate di oggetti straordinari – papiri, talismani, testi antichissimi – si arrampicavano lungo le pareti, fino a raggiungere vette imprecisate. I reperti più originali galleggiavano sotto spirito in grandi barattoli, come macabre conserve custodite nella dispensa di una nonna perversa: animali deformi, bulbi oculari, feti umani.
Cristina apriva gli sportelli degli stipetti, affascinata dai gioielli ottenuti attraverso la lavorazione di pietre rarissime, rapita dai rami di corallo dalle forme inusuali, incuriosita da esemplari di tulipani il cui valore era inestimabile.
La bolla della tulipomania era esplosa da una ventina d’anni, ma i bulbi di determinate specie si ostinavano a mantenere un gran valore.
Decio era attirato dalle statue parlanti, dagli automi e dalle lucerne, mezzi in grado di riprodurre o di deformare la realtà, con un uso sapiente della meccanica.
Maldestra come sempre, Cristina urtò un grosso scheletro di struzzo, e per un attimo temettero entrambi che venisse giù tutto.
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Nella seconda stanza c’erano solo quadri. Dipinti magnifici che ritraevano martiri, duelli, guerre, esecuzioni; un solo soggetto: la Morte. In tutte le sue possibili declinazioni.
La tela di Raul acquistata da Borri era fra le più enigmatiche della sua produzione, al pari del titolo: Chiudo a chiave la porta su me stessa. Ritraeva una donna dai tratti evanescenti: lo sguardo malinconico, quasi ultraterreno e i capelli rossi, in tinta con i gigli appassiti color arancio che svettavano in primo piano. Il corpo era reclinato su una tomba.
Lo sfondo, alle spalle della creatura misteriosa, era gremito di simboli fra cui spiccavano un busto di Hypnos, il dio del sonno, lo scorcio di una strada medievale percorsa da una figura incappucciata e uno specchio deformante.
Fra tante opere a tema, l’unica nota fuori dal coro era rappresentata da una stampa antica che riproduceva la mappa di Roma.
Era stata appesa al centro della parete opposta all’ingresso, in modo che chiunque entrasse la vedesse per prima.
*
Iniziava ad albeggiare. Anche l’ultimo capannello di ubriachi si era dileguato in una delle viuzze laterali della piazza, fra risa, parole senza senso e passi vacillanti.
La cima delle torri di Sant’Agnese in Agone si tinsero di rosa, e Gian Lorenzo, immerso in quel silenzio assoluto, interrotto soltanto dallo scroscio delle tre fontane, ammirava compiaciuto il gioco di riflessi sulle pozze residue.
Il fantasma di Palazzo Pamphili galleggiava in una pozzanghera appena più grande delle altre.
I chiusini erano stati riaperti da un paio d’ore, consentendo all’acqua utilizzata per allagare il circuito ellittico della piazza di defluire nelle fogne, trascinando con sé lo schiamazzo e gli eccessi dei tradizionali giochi estivi.
Giulia comparve alle sue spalle come uno spettro, facendolo sussultare, talmente era assorto nei suoi pensieri.
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