Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
L'intervista doppia di Febbraio
Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus, ma soprattutto rieccoci con Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi! Viviamo un'epoca a suo modo turbolenta e ricca di cambiamenti ma la nostra passione per la lettura rimane stabile.
Per questo anche oggi parleremo con due autori, Carlo Vicenzi e Debora Mayfair, i quali risponderanno alle nostre domande.
Ma questo non sarebbe Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi senza degli estratti ed infatti non mancano!
Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?
C.V.: È ambientato a Finale Emilia, dove sono nato e cresciuto. Un posto in mezzo al niente, troppo piccolo per essere una città e troppo grande per essere un paese. Perché l’ho scelto? Perché anche se quando ero più giovane mi sembrava di vivere in qualcosa che definivo “il trionfo della noia”, poi crescendo mi sono ritrovato a essere consapevole delle persone fantastiche che vivono attorno a me e con me. Questo mi ha fatto pensare che non c’è bisogno di un luogo famoso o evocativo per scrivere una bella storia, ma di persone che possano far immedesimare chi legge e quindi dar vita ai sentimenti che spero di condividere.
D.B.: Il romanzo è ambientato a New York, anche se la protagonista è nata e cresciuta a Parigi. La ragazza è una giovane e ambiziosa stilista, mi sono chiesta dove avrebbe potuto trovare un luogo in cui grazie alla sua arte e al suo talento avrebbe potuto spiccare il volo e mi sono venuti in mente Central Park e le luci della grande mela, con i loro colori, la folla e i look ineguagliabili.
Da cosa è ispirata l’ambientazione?
C.V.: Come ho detto prima, dal mondo reale, da una città reale. Spero che in questo modo tutto appaia un po’ più vero, più vivo, per così dire. Una volta mi dissero che le storie più belle vengono fuori quando si scrive di qualcosa che si ama e si conosce profondamente. Quindi ho fatto così, spero di avercela fatta.
D.B.: Fleur si è trasferita a New York, ma spesso si trova a passare il tempo tra il suo atelier e lo Starbuck’s in cui lavora Adam… praticamente mi sono immaginata là e ho ritagliato la mia comfort zone all’interno di una metropoli!
Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)
C.V.: Di solito non scrivo romanzi di questo genere, è il primo per me. Scrivo Fantasy e Fantascienza, epico e post apocalittico. Quindi sarebbe facile per me immaginare un’ambientazione di quel tipo. Però la storia di Zoe ed Enea sta bene qui nel presente, nel nostro mondo.
D.B.: Beh, cambiando qualche elemento potrei ambientarlo in un futuro dispotico: il risultato potrebbe avvicinarsi vagamente a un incrocio tra Altered Carbon e Sex and the City, suppongo che potrebbe essere interessante!
Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?
C.V.: Nel passato è piuttosto facile, in effetti. Se dovessi scegliere un’epoca, direi a metà o fine ‘700, quando cominciavano a fiorire i primi ristoranti e la musica stava facendo un balzo in avanti.
D.B.: Sì, senza problemi. Rimanendo fedele alle origini della protagonista potrei ispirarmi al vissuto di Coco Chanel, oppure a quello della più aggressiva e innovativa Elsa Schiaparelli.
Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?
C.V.: Ecco, non sarebbe poi così difficile, in fondo, pensare a qualcosa del genere, ma avrebbe davvero lo stesso sapore? In realtà non saprei. Forse sì, ma dato che ciò di cui vorrei parlare in questo libro è la crescita personale e il superare gli ostacoli che noi stessi ci poniamo, alla fine potrebbe funzionare in qualunque tempo o spazio
D.B.: L’ho fatto prima, quando ho pensato di avvicinarlo ad Altered Carbon… Inoltre credo che certi temi seguano l’umanità e si adattino ad ogni periodo che vive.
Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?
C.V.: Vediamo un po’… sto scrivendo un Fantasy epico e ho lavorato un bel po’ sul mondo e la sua storia quindi direi che una delle scelte ricade lì, anche se non ho ancora dato un nome vero e proprio all’ambientazione.
Poi diverse lettrici mi hanno chiesto di continuare la mia serie distopica\postapocalittica “Nyctophobia” che attualmente è composta da due volumi. È ambientata in Italia e quindi tornerò di certo a scrivere delle nostre zone.
Come terza scelta… non saprei, dovrei pensarci per bene. Però ho qualche idea per i personaggi di Thomas e Sonia che compaiono nel Respiro del Fiume. Potrei scrivere una storia tutta loro.
D.B.: Sto lavorando a un testo ambientato a New Orleans, in Louisiana… e a un altro ambientato in Italia. Mentre per il terzo posto non saprei: magari su un altro pianeta, o un satellite come la luna.
Ora parliamo del romanzo di Carlo Vicenzi, qui potete ammirarne la copertina, mentre sotto trovate gli estratti.
-o-o-
La strada che dava accesso a Finale Emilia era incorniciata dalle fronde dei platani. Il mio cervello veniva bombardato da flash di ricordi, risvegliati da immagini familiari che ritrovavano il loro posto nella mia testa: il verde delle foglie e il giallo del grano che ondeggiava nel vento come fosse un mare dorato.
Avevo iniziato a odiare quel posto a tredici anni, quando mia madre, aveva deciso di trascinarmici come quando ero una bambina per continuare la tradizione di andare dalla sorella ogni fine settimana, allontanandomi dalla mia vita sociale di tredicenne, cosa che all’epoca consideravo un affronto mortale. Appena raggiunta un’età in cui potevo essere lasciata a casa da sola per due giorni senza rischio di disastri, sempre secondo il metro di mia madre, avevo smesso di andarci. Se avessero detto che, undici anni dopo, quel posto in mezzo al nulla sarebbe diventata la mia unica speranza di rimettere in sesto i pezzi della mia esistenza, sarei scoppiata a ridere e con tutta probabilità avrei sparato una salva di insulti.
E invece eccomi qui, in un posto troppo piccolo per essere chiamato città, ma troppo grande per essere chiamato paese.
-o-o-
I piedi mi portarono oltre il boschetto, oltre la zona incolta subito oltre. Davanti a me vidi il fianco coperto d’erba verde dell’argine.
Il fiume.
Non l’avevo ancora visto, da quando ero tornata. Infilai il libro sotto l’ascella e presi a salire il ripido pendio terroso che cingeva il greto. Afferrai gli sterpi che lo coprivano per reggermi. Avrei potuto camminare per qualche centinaio di metri fino a una delle rampe ghiaiate, ma preferii fare così, come undici anni prima.
Fui sulla cima di quel serpente di terra compatta in un batter d’occhio, a fissare il suo gemello, sull’altra riva. Il corso d’acqua aveva un colore malsano e sabbioso. Pezzi di legno e grovigli di vegetazione marcescente venivano trascinati dalla corrente. Un centinaio di metri alla mia sinistra, vicino a un’ansa, una nutria grossa quanto Spike si tuffò in acqua.
Ai miei piedi l’argine digradava, fino a una banchina terrosa, larga non più di sei o sette metri. L’odore del fango mi pulì le narici che parevano incrostate dal fritto e dagli altri effluvi della cucina. Non che mi dessero fastidio, solo che dopo ore degli stessi profumi il mio cervello aveva bisogno di qualcosa di diverso per tenersi attivo.
Mi sedetti, le gambe rilassate lungo la discesa. L’aria era piena di farfalle e moscerini, api e nugoli interi di zanzare che si levarono in volo appena posai il sedere sull’erba. Non mi importava di quei piccoli vampiri: il mio sangue non le aveva mai attirate granché e le punture prudevano solo per qualche minuto, se si aveva la forza di volontà di non grattare.
Avrei potuto anche essere circondata da uno sciame di vespe, non avrebbe fatto alcuna differenza: avevo il mio libro, avevo qualche ora per rilassarmi. Non mi mancava nulla.
-o-o-
Un profumo floreale inondava l’ambiente. Legno lucido copriva il pavimento e saliva fino a metà delle pareti. Il breve corridoio d’ingresso sfociava in una sala ampia di forma circolare, luce soffusa gettata da candele e lanterne presenti su ognuno dei tavoli che la riempivano. Dal lato opposto stava un bancone in pietra su cui erano poggiate cloche di vetro che proteggevano torte, muffin e biscotti di ogni genere. Dietro, file e file di mensole reggevano cilindri di metallo, etichette compilate con grafia svolazzante. C’era musica in sottofondo, abbastanza alta da poterla udire, ma non fastidiosa. Solo note, nessuna parola.
[…]
E non avevo ancora aperto il menù. Quando lo feci rimasi davvero sorpresa. Non c’era traccia di birre, bibite gassate in lattina e nemmeno acqua minerale. Sulle pagine di carta di riso erano elencati tè di tutti i tipi, accompagnati da una breve descrizione a metà tra lo storico e il sommelier. Gialli, neri, verdi, rooibos… c’erano più infusi e bevande di quanto potessi immaginare esistessero. Sul retro, con una clip di legno, era agganciato un foglio che riportava le pietanze del giorno: muffin, torte e biscotti.
«Questo» esordì Sonia, «è il mio rifugio lontano dal mondo, dallo stress e dalle delusioni amorose.»
Ora invece passiamo a Debora Mayfair, prima di leggere i suoi estratti, diteci, che ne pensate della copertina del suo libro?
-o-o-
Prendo in mano il blocchetto di legno che ho intagliato, spingo con la sgorbia per intagliare la parte del pattern a fiori ancora non esistente. Mi accorgo che me ne serve una più piccola, quindi mi alzo con l’intenzione di frugare nello sgabuzzino alla ricerca di quella dalla dimensione adatta. Osservo le bobine delle stoffe da usare per fare i provini degli abiti appartenenti alla prossima collezione da far poi indossare alle modelle e mi accorgo di avere una strana sensazione, ho come il sospetto di aver dimenticato qualcosa.
Fisso spaesata il mio atelier, sposto lo sguardo all’interno dell’arioso monolocale: dalle poltroncine verde acido al tavolo in legno su cui cucio i vestiti e disegno i bozzetti. Decido di ignorare la questione, tornando a rovistare nella marea di tessuti colorati, preferisco focalizzare l’attenzione sul lavoro. Mentre sono immersa tra le stoffe verdi e blu, vedo l’ultimo acquisto: un drappo rosa shocking che Angelice adorerebbe.
Ecco cosa ho scordato: devo chiamarla!
-o-o-
Esco dal portone d’ingresso del palazzo, oltrepasso correndo un paio di vie e raggiungo finalmente il parco, immergendomi completamente nel verde. A quest’ora non c’è quasi nessuno, se non poche persone che si affannano con un caffè da asporto in mano. Mi rendo conto solo ora che quando raggiungerò l’atelier sarò già distrutta, probabilmente l’acido lattico imperverserà in muscoli che nemmeno credevo di avere. Sto adocchiando una panchina quando noto che Victor mi sta per raggiungere, saltella sulle punte come se fosse appena uscito dalla doccia: nessuna goccia di sudore imperla il suo volto abbronzato o i suoi corti capelli mori. Aggiusto la coda, stringendola, approfittandone per farmi raggiungere e riposare qualche secondo.
«Che ne dici di fare un giro completo e poi fermarci per una pausa?» chiede.
«Certo, perché no?»
Dopo pochi minuti lo sto già perdendo di vista ma, ehi, quanto sarà grande questo parco? Provo a stargli dietro, ma dopo aver corso qualche altro centinaio di metri mi rendo conto che non ce la faccio già più.
No, se fossi un animale della savana non sarei affatto una gazzella. Sarei piuttosto un simpatico lemure, uno di quelli con le code tutte a cerchi grigi e neri. I lemuri vivono nella savana o nella foresta? Beh, se non vivono nella savana, sarei un suricato. Girerei assieme al mio compare facocero e hakuna matata: lasciamo correre i leoni e le gazzelle.
Mi fermo. Ho il fiatone, la gola arsa e non ho la più pallida idea di dove possa trovare dell’acqua: le fontanelle di cui parlava Victor sembrano un miraggio. Cerco di riprendere fiato poggiando le mani sulle ginocchia. Odio sudare. Odio correre, non so perché finisco sempre per farmi coinvolgere in queste cose!
Prelevo il telefono dal supporto sul braccio, segna le sette e trenta… ho davvero corso per quasi tre quarti d’ora? Ma quanto diamine è vasto questo parco?
-o-o-
Guardo la strada buia, a malapena illuminata da fioche lanterne messe ad hoc per rendere l’atmosfera, e rimpiango il fatto di non aver avvisato le guardie del corpo della mia partenza. All’aeroporto ho avuto un moto di sollievo nel vederle bloccate prima del check-in, mentre ora mi sento solo una stupida. Sono nervosa e credo che saperle vicine mi avrebbe aiutata.
Alcune persone in maschera camminano per strada, avvicinandosi all’ingresso della nave. Spronata da Angelice, ci accodiamo e insieme a loro ci addentriamo dentro l’imbarcazione, dopo aver mostrato gli inviti.
Dopo essere entrate ci mescoliamo tra gli altri invitati, siamo circondate da un tripudio di abiti da sera, musica, paillettes e brillantini. Mi guardo attorno e sussulto davanti a tanta opulenza: mi aspettavo un salone raccolto, non di certo uno spazio degno di un ballo dato all’interno di una reggia. Più che una nave questo posto sembra un castello. Oltre al vestibolo che ci accoglie, due file di colonne sostengono il tetto e creano uno spazio separato intorno all’ingresso. Un imponente scalinata di marmo bianco disegna un’ampia curva e divide l’ingresso in cui si accolgono gli invitati dal soppalco superiore, da cui si ha una vista privilegiata sulla sala da ballo. Alcune porte si affacciano sul corridoio, credo che siano stanza private. Svariate nicchie alle pareti ospitano delle sculture di tipo classico: donne e uomini in posizioni statiche che ricordano antiche divinità.
Allora cosa ne pensate dei nostri autori? E i romanzi vi ispirano?
Fatecelo sapere con un commento qui sotto e sui nostri social!
Intanto io vi saluto.
Ciao e alla prossima!
Ciao e alla prossima!
*ENRICO*
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