mercoledì 13 maggio 2020

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, un Maggio d'interviste

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi




Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus! Nella nostra rubrica in collaborazione con Dark Zone, ovvero Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, oggi intervisteremo Vittoria Corella, Federica Soprani Marialuisa Gingilli. Parleremo con le nostre autrici delle ambientazioni dei loro libri, dei quali ci hanno dato anche degli estratti da leggere... ma prima cominciamo con l'intervista!

Un'ultima cosa, come sempre per distinguere chi dice cosa, troverete le iniziali dell'autrice in questione con un colore diverso, in modo da creare una sorta di filo conduttore. Buona lettura!


Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?

M.G.: Solo per me è ambientato in Irlanda, principalmente a Galway, anche se, all’inizio della mia storia, i protagonisti si spingono un po’ più su: dalle Cliffs of Moher, passando per il Giant’s Causeway, fino a Ballintoy, a ridosso del Mare del Nord.
La scelta è stata più che naturale. Solo per me è nato da un gioco di scrittura creativa sul gruppo Facebook dell’autrice Melissa Pratelli. Si chiedeva un piccolo racconto che avesse come tema il viaggio e davanti agli occhi mi è passato quello che avevo fatto a vent’anni, nella verde Irlanda, con il mio fidanzatino dell’epoca. Da lì, Margherita e Alessandro non hanno più smesso di parlarmi e quel viaggio è diventato il motore di tutta la storia.


V.C.: Londra, Impero Britannico, anno di grazia 1890. Sono filobritannica per formazione e indole. Vittoriana inside.
F.S.: Inghilterra di fine 800. Un periodo ricco di contraddizioni e contrasti insanabile, Il Crepuscolo di un’epoca. La fine dell'innocenza del mondo. 

Da cosa è ispirata l’ambientazione?

M.G.: Sicuramente dalle immagini e dai profumi che, più di quindici anni fa, hanno conquistato il mio cuore. Molti di quei luoghi, complici l’urbanizzazione e la cementificazione crescente, sono cambiati, ma ho cercato di raccontarli attingendo ai miei ricordi e mostrando un’Irlanda un pochino più selvaggia di quella odierna.


V.C.: Da un milione di letture fatte per dovere, diletto, studio, curiosità. 
F.S.: letture, film, serie TV. Nonostante una breve parentesi Bonapartista sono sempre stata innamorata dell'impero britannico. 


Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)

M.G.: Trattandosi di un romanzo autobiografico, con eventi molto precisi da narrare, non ho mai pensato di stravolgerne la trama o l’ambientazione. Al massimo, c’è stato un momento in cui ho valutato l’ipotesi di retrodatarlo di una decina d’anni, ma niente di più.


V.C.: Steampunk retrofuturista farebbe la sua porca figura.
F.S.: difficile immaginare questa storia e questi personaggi calati in un contesto storico e sociale diverso. L'ambientazione ha davvero un ruolo fondamentale in quello che abbiamo scritto. Anche per me l'unica possibile alternativa sarebbe una distopia o uno Steampunk. 

Riesci a immaginare la tua storia nel passato?

M.G.: Dovremmo rivedere alcuni punti della trama, però vedo bene Margherita in un’epoca a cavolo tra la fine 1800 e l’inizio del secolo scorso. Potrebbe essere una ragazza in viaggio con la sua istitutrice in Irlanda, mentre a Roma l’attende Alessandro, il suo promesso sposo.
Ritroveremmo il suo spirito di emancipazione, schiacciato da una realtà che le va sempre troppo stretta, e sarebbe facile rincontrare Joshua, erede di un piccolo impero nel settore del tessile.

V.C.: Sedicesimo secolo, Guerra delle due rose. Tanto per poter scrivere di Riccardo III come Philippa Gregory. 
F.S.: Non sarebbe male come dramma elisabettiano. Gli ingredienti ci sono tutte e alla fine i personaggi potrebbero essere declinati anche per quell'epoca, con le dovute differenze. A Jericho sarebbe piaciuto moltissimo frequentare Kit Marlowe. 

Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?

M.G.: Assolutamente sì, visto il caratterino di Margherita: spirito di adattamento, curiosità e voglia di conoscere nuovi mondi farebbero di lei una perfetta esploratrice spaziale del futuro. Chissà quale potrebbe essere il pianeta di Joshua…


V.C.: In una galassia lontana lontana tutto è possibile.
F.S.: Perché no? 

Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?

M.G.: I miei prossimi romanzi saranno ambientati a Londra, Roma e New York. A essere precisi, Londra farà da sfondo a due storie: il primo spin-off della Under the Irish Sky e una sorta di Historical Romance con sfumature paranormal, che si dividerà tra il North Yorkshire del XVI secolo e, appunto, la Londra dei giorni nostri.



V.C.: India. India. India.
F.S.: Francia del '600. Luthais (avete presente la Midian di Clive Barker? Ecco, però molto, molto più grande. E con molti più mostri). Parma. 


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Ora è il momento degli estratti, qui sotto potete vedere la copertina di "Solo per me" di Marialuisa Gingilli, e poco più sotto... già, delle porzioni di romanzo apposta per noi!

Ero eccitata all’idea di affacciarmi dalle famosissime Cliffs of Moher, nonostante un po’ di timore dovuto alla mia fobia dell’altezza. Alessandro tirò fuori la Reflex, pronto a catturare le bellezze di quell’incanto della natura, se non fosse stato per un piccolissimo particolare: tutta la zona era ricoperta da una fitta nebbia che avvolgeva ogni cosa, rendendo impossibile anche solo immaginare il panorama circostante.
«Ditemi voi se questa non è sfortuna» sbottò Darragh.
«Io non ho alcuna intenzione di tornare indietro, ve lo dico eh!» si rivolse a tutti Susanna. 
«In effetti, visto che siamo qui, ormai» mi azzardai io, «propongo di arrivare comunque in cima al sentiero e vedere se nel frattempo la nebbia si dirada.»
Davanti a noi, infatti, si stendeva il selciato che ci avrebbe portato alla Torre O’Brien, un piccolo edificio posizionato su una porzione di scogliera aperta ai turisti, da cui avremmo potuto vedere le Isole Aran, la baia di Galway e le montagne Maumturk, nel Connemara.
«Io sono d’accordo con Margherita» intervenne Joshua, «saliamo intanto.»
Ci incamminammo lungo il percorso. Arrivati più o meno a metà, una coppia di ragazzi italiani che veniva nel senso opposto, molto probabilmente sentendo me e Ale parlare nella nostra lingua, ci avvicinò, suggerendoci di tornare indietro perché, a parte le raffiche di vento che sferzavano, non c’era davvero nulla lassù in cima, tanto meno qualcosa da vedere.
«Se c’è vento forte, però» ci fece notare Alessandro, «è facile che la nebbia presto si alzi.»
Ci convincemmo ad arrivare in vetta. In effetti, come ci avevano descritto poco prima quei ragazzi, il vento era forte e gelido. Le giacche si muovevano come strattonate da mani invisibili. Intorno solo la nebbia.
Giacomo e Alessandro cominciarono a scherzare, facendo finta di essere pirati alla ricerca di un lembo di terra, muovendosi da una parte all’altra della zona aperta ai turisti e parlando come vecchi lupi di mare.
Scoraggiati dalle condizioni impervie, i pochi che si erano avventurati verso le Cliffs avevano abbandonato quel punto delle scogliere. Eravamo solo noi, il cielo e, da qualche parte, l’oceano.
All’improvviso il vento cambiò direzione, senza però diminuire di intensità e, come se qualcuno dall’alto avesse tolto un velo da sopra le nostre teste, la nebbia si alzò tutta insieme, rivelando ciò che la natura aveva creato in quell’angolo d’Irlanda.
Il punto in cui ci trovavamo era una rientranza delle Cliffs. A destra e sinistra potevamo ammirare le scogliere in semicerchio, come fossimo al centro di un grande abbraccio tra terra e oceano.
Il verde lussureggiante delle vette, illuminato dal sole che aveva fatto capolino tra le nuvole, spiccava sulle migliaia di sfumature di colore della parte rocciosa. Le pareti erano come tagliate di netto, scoprendo, all’occhio di chi le osservava, millenni di storia. Nella sua semplicità, la natura si metteva a nudo di fronte a noi.


Nei giorni a seguire, ci eravamo spinti più a nord, raggiungendo Sligo, la città natale di mia madre, nell’omonima contea.
La tappa successiva sarebbe stata Belfast, nell’Irlanda del Nord, e Alessandro aveva approfittato delle ore trascorse assieme per chiedermi maggiori informazioni sull’IRA, il periodo dei Troubles, alla fine degli anni Settanta, e i murales che raccontavano anche lì, come nella mia città Derry, i fatti più importanti che avevano sconvolto la nostra terra e la voglia del mio popolo di staccarsi dalla Gran Bretagna per riunificare l’Irlanda. 
Avevamo poi percorso le vie della capitale nord irlandese, seguendo proprio la Peace Line, spingendoci all’interno del Gaeltacht Quarter nella West Belfast. Fu lì che Margherita riuscì nuovamente a sorprendermi.
Il suo murales preferito era stato quello raffigurante la fenice, simbolo della rinascita dell’Irlanda dopo la Rivolta di Pasqua del 1916, soffocata nel sangue dall’esercito inglese.
«Sapevano di non avere alcuna speranza di vincere» aveva commentato dopo il mio racconto, guardando quel murales, «eppure decisero di non arrendersi, di non scendere a compromessi, di lottare per i propri ideali e il futuro dei propri figli.»


«Mio nonno mi ha raccontato una leggenda anche su questo posto, sai?» le sussurrai. «Vuoi che te la racconti?»
Lei, in risposta, si limitò ad annuire con un breve cenno del capo.
«Giant’s Causeway significa ‘Cammino dei giganti’» le dissi nella sua lingua, per poi continuare in inglese. «La formazione rocciosa che vedi prosegue fino in Scozia, inabissandosi lungo il suo percorso, per poi riemerge in corrispondenza dell’Isola di Staffa. Si narra che il gigante di Scozia, Angus, si innamorò della moglie del gigante d’Irlanda, la bella Oonagh. Suo marito, Finn McCool, decise quindi di costruire il selciato per raggiungere il suo rivale e fargli capire che doveva tenere le zampacce lontane dalla sua amata. Angus, saputo il fatto, si mise in cammino verso l’Irlanda, costruendo lo stesso identico percorso dalla parte opposta. Finn, che era di un’intelligenza superiore alla media, però, avvertito dell’arrivo di Angus si travestì da infante e si sedette ad aspettarlo. Arrivato a metà selciato, Angus incontrò il piccolo. ‘Chi sei tu?’ gli chiese. ‘Io sono il figlio del grande e potente Finn McCool, gigante d’Irlanda.’ ‘Cosa?’ pensò Angus. ‘Se questo è davvero il figlio, immagina quanto deve essere grande e spaventoso Finn.’ Terrorizzato all’idea di doversi battere contro un avversario di quel calibro, Angus girò i tacchi e tornò, correndo, verso la Scozia. A ogni passo fece inabissare, nei fondali del Mare del Nord, un pezzo del Giant’s Causeway.»

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Cosa ne pensate di quello che avete letto? Fatecelo sapere con un commento. Ora però non è il momento di scappare: ci aspetta un'altra lettura, Victorian Solstice di Vittoria Corella Federica Soprani.





1
A dispetto del nome, in Flower and Dean Street non crescevano fiori. Non cresceva nulla. Il terreno fangoso era sterile, morto, come gli innumerevoli cadaveri che si decomponevano nelle sue viscere purulente. Perché ci si seppelliva la gente, da quelle parti. Da sempre. Lo sapevano tutti. I romani, poi gli ugonotti, e infine gli irlandesi. 
Almeno questo succedeva prima. Ormai non c’era più spazio per le sepolture, non c’era tempo. Francamente, alla gente di Flower and Dean Street non importava più niente. La gente moriva continuamente, era difficile tenere il passo. Ci si afflosciava contro i muri delle case fatiscenti e si crollava a terra, tra i rifiuti, a inzupparsi gli abiti nei rigagnoli che sfuggivano dai canali di scolo perennemente ostruiti. Questo finché qualcuno non arrivava e ti spogliava, strappandoti di dosso i pochi stracci e lasciandoti nudo, schiacciato tra cielo e terra. Alcuni si trascinavano a morire in uno dei tanti vicoli bui, crepe nel tessuto diroccato del quartiere. 
Spitalfields era un coccio screpolato, un tozzo di formaggio crivellato dai topi, consumato dalla muffa. Era pieno di antri oscuri, di pozzi di tenebra. Ogni rientranza, ogni angolo poteva essere la tana di un mostro, e quasi sempre lo era. Mostri di passaggio, nella maggior parte dei casi, anche se non c’era bisogno di avere fretta, per commettere un crimine da quelle parti. 
La polizia non ci pensava nemmeno a pattugliare le strade e, in quanto ai passanti, pochi avevano il coraggio di uscire dopo il calar del sole. Se lo facevano, era probabile che fossero mostri a loro volta, e nelle faccende tra mostri era meglio non mettere becco, era noto a tutti.
All’Aquila grigia i mostri si davano convegno. Se entravi, dovevi aver già in mente un piano per uscire, o essere mosso da un motivo davvero molto, molto importante. O magari eri semplicemente troppo pazzo, troppo ubriaco o troppo irlandese per porti il problema. In tal caso, meritavi di morire. Le puttane che frequentavano il pub erano tutte malate, così come i loro protettori. Se non ti uccideva una coltellata, ci avrebbero pensato loro, dopo una lunga agonia, dopo averti fatto cadere l’uccello, il naso, e altre parti del corpo che comunque non ti sarebbero servite più. O ti avrebbe ammazzato il gin, distillato da patate marcescenti, un veleno concepito esclusivamente per uccidere, ma molto, molto lentamente.
All’Aquila grigia andavi se non ti importava più abbastanza di vivere. A meno che, naturalmente, non fossi un mostro anche tu.

2
Quando la scala si aprì inaspettatamente in uno stanzone, tutti emisero un sospiro di sollievo. Percorsero gli ultimi gradini, lasciando vagare lo sguardo nell’ambiente deserto, privo di qualsiasi elemento che permettesse di individuarne l’utilizzo. Una singola porta rinforzata con barre di ferro suggeriva il percorso da seguire.
Jericho guidò i compagni fino a essa, e l’aprì senza esitazione. Sapere cosa avrebbero trovato oltre quella soglia non lo rendeva meno nervoso, ma non era il caso di lasciar trasparire le proprie emozioni. 
Di nuovo furono investiti da un alito ardente, che li costrinse a chiudere gli occhi, e subito dopo da una folata gelida. Nell’aria esplose uno stridore di freni, accompagnato da un intenso odore di ferro e carbone che per un attimo surclassò il tanfo dolciastro che li aveva ammorbati fino ad allora.
«È una stazione della metropolitana!» esclamò Henry Cadogan. Sembrava sinceramente sollevato di non essere stato condotto in un girone infernale. Ma il sollievo durò pochissimo. «Dio del cielo...» balbettò il giovane, gli occhi stralunati.
Boudicca gridò, cercando rifugio tra le sue braccia.
Il vasto ambiente dal soffitto a volta in cui si trovavano era senza ombra di dubbio una stazione sotterranea. La presenza di un treno fermo sui binari avrebbe smentito qualsiasi dubbio a riguardo. Due tunnel speculari si aprivano su ambo i lati, inghiottiti da tenebre insondabili. Ma non era stata certo la consapevolezza di trovarsi in una stazione a suscitare la reazione dei ragazzi, quanto la particolare natura di quel luogo, resa inequivocabile dalle decine di bare accatastate sulle banchine e disseminate su qualsiasi porzione di terreno calpestabile.
Uomini scuri di carbone si affaccendavano tra di esse, in un silenzio irreale, scaricandone di nuove dai vagoni appena giunti e andando ad aggiungerle a quelle presenti. Altri uomini provvedevano a caricare le bare quattro alla volta su un montacarichi a vapore, che veniva poi avviato cigolando al piano superiore. Tutti indossavano maschere che coprivano la parte inferiore del volto e che conferivano loro un aspetto alieno e spaventoso. 
Ma era inevitabile, ovviamente. La presenza dei tunnel non disperdeva il tanfo nauseabondo di putrefazione, né riusciva a farlo la calce viva sparsa sulla pavimentazione e sulle bare stesse.

3
Così, il ventre della città era divenuto un intersecarsi di budelli piccoli e grandi, che si dispiegavano a varie altezze, il più delle volte senza sfiorarsi, come le vene e le arterie di un sistema circolatorio in perpetuo mutamento. Un labirinto senza fine, dove era possibile vagare per giorni senza vedere la luce del sole, dove anche i più esperti potevano perdersi, finire intrappolati in pozzi senza fondo, in sistemi senza uscita, popolati da creature difficilmente riconducibili a specie note all’umanità, capaci di far vacillare le menti più salde. Una trappola mortale per i più, un rifugio sicuro e inespugnabile per pochi.
Laggiù avanzavano brancolando, annaspando, trascinandosi penosamente esseri troppo mostruosi per immaginare che fossero mai stati uomini, ogni arto una deformità, volti tumefatti, piaghe infette, i capelli ridotti a grovigli arruffati, le unghie artigli protesi per ghermire, i denti zanne snudate. Una folla di abomini con fattezze di uomo, esseri ripugnanti, emersi dal viscidume che scorreva sotto la città ignara. Guai a chi si fosse avventurato in quel mondo all’incontrario, senza conoscerne le regole: la città aveva zanne e artigli, e non aveva cuore. 
Infine giunsero nel luogo in cui il Re dava convegno ai suoi, la Sala del Trono. Torce fumose e falò provvedevano a illuminare il vasto ambiente, un tempo occupato dalle vasche di smistamento in cui i liquami di Londra si raccoglievano. Dal soffitto a volte incrociate pioveva una selva di rampicanti spugnosi e azzurrini, che sembravano emanare una debole fluorescenza, repellenti ibridi tra animali e vegetali, nutriti da secoli di escrementi e lordura.
Il Re stava semidisteso su una catasta di rifiuti, una mano a reggere il capo avvolto dal viluppo di lana di ferro dei capelli incolti. Ai piedi della catasta un uomo pizzicava le corde di una piccola arpa, circondato da un nugolo di bambini smunti e sbilenchi, rapiti in muta meraviglia. 
«Quello è Gael Riordan, il figlio di Lir» sussurrò Jericho a Jonas, indicandogli il suonatore.
Jonas valutò la figura avvolta in stracci colorati. Sarebbe stato un uomo di bell’aspetto, nonostante l’aria trasandata. Probabilmente una volta ripulito e vestito con abiti civili, con i capelli lavati e tagliati a dovere, avrebbe fatto una splendida figura alle corse di Ascot!
Se non fosse stato per la sua deformità... Il suo braccio sinistro appariva sproporzionato e contorto, lungo e rachitico. Ricordava un’ala atrofizzata, e terminava con una mano scheletrica dotata di unghie simili ad artigli. 
Ecco perché figlio di Lir, il dio del mare nella mitologia irlandese, i cui figli furono condannati a vivere come cigni per novecento anni dalla gelosia della matrigna Aoife. Evidentemente quando era stato ritrasformato in un uomo qualcosa era andato storto. 
Ciononostante, le note che quelle dita mostruose riuscivano a strappare dalle corde della vecchia arpa erano di una delicatezza struggente.




E rieccoci qui, vi sono piaciuti gli estratti? Fatecelo sapere qui sotto oppure sui nostri profili Social. Ciao e alla prossima!

*Enrico*

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