mercoledì 12 settembre 2018

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi Nuova Stagione



Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Nuova Stagione


Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus, ma soprattutto bentornati nella nostra rubrica d'intervista e approfondimento delle ambientazioni in collaborazione con Dark Zone.
Quindi, rieccoci qui con Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, oggi abbiamo come ospiti due autrici ed un autore: Miriam Palombi, Giorgia Vasaperna, Marco Fedele... Pronti per l'intervista?
E non dimenticate gli estratti dai loro libri subito dopo!

Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?

M.P. Miseri Resti Sepolti è un’antologia horror, alcune ambientazioni sono legate alla tradizione del genere. Sono luoghi spettrali e angoscianti.


G.V. Il mio romanzo è ambientato a Whitetail City, Pennsylvania. Si tratta di una città fittizia, creata perché la Pennsylvania è un posto che mi affascina e ho provato a immaginarla e a raccontarla. Magari, un giorno, potrò vederla con i miei occhi.


M.F. Per metà è ambientato nel milanese, per l’altra metà in un paese di fantasia in provincia di Gorizia. Due posti diversi tra loro per evidenziare come le problematiche del primo possano influenzare la quotidianità del secondo.

Da cosa è ispirata l’ambientazione?

M.P. Non vengono citati luoghi realmente esistenti. Le ambientazioni sono il pretesto, creano l’atmosfera in cui si muovono i personaggi.


G.V. Dal romanzo Amabili Resti di Alice Sebold. Da quando l’ho letto, la Pennsylvania si è trasformata in un luogo oscuro, proprio ciò che mi serviva per questa storia.


M.F. Per la provincia di Milano dalla radicata presenza di una particolare organizzazione criminale, per il villaggio friulano dalla sua vicinanza con il confine sloveno.


Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)

M.P. No, avevo chiara fin da subito le atmosfere cupe che volevo ricreare.


G.V. In realtà, no. La storia è, a grandi linee, come l’ho pensata la prima volta. Ho solo considerato l’idea di utilizzare una città vera, come Harrisburg, ma poi mi sono tirata indietro. Volevo inventare, cosa che ho un po’ per vizio.


M.F. No, il racconto rappresenta un ben definito periodo storico, risultato di decenni di sedimentazione criminale e di indagini poliziesche.

Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?

M.P. In realtà non è indicata una collocazione temporale precisa. Ma per mia deformazione ho pensato che i racconti potessero essere ambientati negli anni ’80.


G.V. Assolutamente. Le tematiche che ho affrontato non sono nuove, l’unica differenza sarebbe il rapporto che alcuni personaggi hanno con queste.


M.F. Non credo che nel passato due mondi così diversi potessero venire così violentemente in contatto.

Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?

M.P. Non credo.


G.V. No. Non posso accettare che certe cose possano accadere anche un domani.


M.F. Purtroppo non so come si evolverà la criminalità organizzata e ho il pensiero che i villaggi come quello in cui è ambientata la storia scompariranno.

Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?

M.P. Nulla è ancora deciso, l’unica cosa certa è che saranno luoghi colmi di mistero e leggende.


G.V. Paesi Bassi, Ungheria, Egitto o Nigeria.


M.F. Apprezzo molto i microcosmi, piccoli ambienti isolati in cui si trovano per caso persone diverse tra di loro e che sono costrette a unire le loro forze per risolvere una situazione difficile. Ho pensato a una piazza, a un mercato comunale e a una bisca.


E ora, come dicevamo poco fa, è il momento della lettura. Partiamo con l'antologia di Miriam Palombi: "Miseri Resti Sepolti".




Miseri Resti Sepolti


«Adesso farai la brava, vero?» La sua voce era bassa e gutturale.
In un angolo un letto sfatto mostrava un materasso rattoppato e coperto da macchie scure che mi ricordarono la carrozzeria butterata del pickup. In alcuni punti l’imbottitura fuoriusciva dalle cuciture slabbrate. Laniccia gretta come paglia, mischiata a qualcos’altro. Erano pezzi di carne. Pelle scura come cuoio conciato. Mani rattrappite dalle dita ossute, con unghie laccate di smalto ancora lucido.
Un odore dolciastro simile a ruggine mi entrò nelle narici. Sapevo cos’era, non era possibile sbagliarsi.
«La lama non mente mai, sa dirti sempre se gli altri sono buoni o cattivi.»
Osservai per la prima volta quel viso. Quel mucchio di lineamenti sembravano essere stati messi lì a caso.


Preda


La superstrada correva veloce accanto alla lingua verdastra e paludosa. Era il fiume ed era lì che gettava i corpi dopo averli scuoiati. Andavano a fondo e finivano sotto la melma limacciosa. Quella visione gli provocò un piacere liquido, lo sentì pulsare giù, verso il basso. Non poteva distrarsi. Doveva restare concentrato. Finora non lo avevano preso, era troppo furbo.
Si lasciò alle spalle il corso d’acqua e si diresse verso la periferia. La città brulicava di disperati in fuga. Lì era più facile scovare una preda, bisognava trovarne una che sembrasse già carne in decomposizione. Qualcuno che portasse impresso come un marchio l’odore della morte.
Percorse il viale; l’asfalto era sconnesso e le insegne dei locali chiusi pendevano sbilenche, come tanti impiccati.


La casa che dorme


Se decideste di seguire i binari arrugginiti della vecchia ferrovia, che costeggia il fiume con il suo letto di ghiaia, vi trovereste a raggiungere un crocevia.
Se ignoraste il sibilo del vento che si incanala nelle gole, senza lasciarvi intimorire, vi trovereste a tagliare perpendicolarmente il bosco. Qui, all’imbrunire, le ombre di tronchi scheletrici e spogli si allungherebbero a dismisura. Gli aghi di pino rilascerebbero la loro essenza aromatica e i suoni giungerebbero distorti come lamenti lontani. Non sono in molti a conoscere quella scorciatoia.
Svoltando a destra, oltrepassando il cancello di ferro brunito ancorato al muretto, su cui uno strato di muschio giallo-verdastro prolifera tra le pietre squadrate, dovreste prendere il sentiero che risale lungo il pendio e lasciarvi alle spalle il cimitero. Vedreste lapidi sbilenche, che escono dal terreno come denti guasti, e statue dolenti dai volti rigati di nera fuliggine.
Sulla sommità vedreste la casa, immersa in un silenzio spettrale. Immutata nel corso degli anni, come fosse lì da sempre. Il suo aspetto sarebbe sinistro come quello di tutti i luoghi consegnati all’incuria e all’abbandono. Un grigiore uniforme avvolgerebbe ogni cosa, dal tetto sbilenco, alla vernice increspata. Dalla veranda traballante fino agli stipiti cadenti.


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Ora invece è il momento di Giorgia Vasaperna che ci farà leggere degli stralci de "L'Assassino che donava girasoli ai cadaveri".




Primo estratto


Si può dire tutto sulla Pennsylvania, ma non che non abbia dei panorami meravigliosi. Adoro Whitetail City, la città in cui sono cresciuta ; eppure è proprio lì che ho provato i più grandi dolori della mia vita: la morte del mio papà, la morte di Noah e la scomparsa di Ruby.


Secondo estratto


Superò la casa degli Hall e proseguì in direzione dell’ultima abitazione del quartiere, chiamata « Belle Époque » dai suoi primi abitanti. Per ignoranza, si presume, le stavano tutti a debita distanza. La paura era causata da una leggenda metropolitana che la vedeva come scenario di uno dei più spietati omicidi della storia americana ; in realtà, la casa incriminata era quella accanto, dove i Fernandez abitavano in serenità. Errore dovuto alla disinformazione o alla volontà di nascondere un dissacrante
segreto ?
La maestosità di Belle Époque era degna di un nobile e il prezzo di mercato era così modesto che un lavoro da McDonald’s sarebbe bastato a coprirne le spese. Peccato che nessuno se ne prendesse cura da anni, come era evidente soprattutto dalle disastrose condizioni del prato. La serratura della porta di servizio, situata nel retro di un ipotetico giardino, era già stata manomessa da July due anni prima, quando per la prima volta aveva posato i suoi occhi meravigliati su Belle Époque.


Terzo estratto


Camminando senza molta consapevolezza, raggiunsi la chiesa di Saint Matthew.
Come ci sono finita ? Credevo di essere a casa.
Esaminai di sfuggita l’edificio, dentro cui non avevo mai messo piede. Non che avessi qualcosa contro la religione, anzi, mi definivo un’agnostica speranzosa. Sebbene mi risultasse incomprensibile, ero affascinata dalla fede di July e della sua famiglia nei confronti di qualcosa che non si era mai mostrata all’umanità. Se si escludevano le innumerevoli icone religiose che qualcuno con poco gusto aveva posizionato in ogni angolo, la chiesa era vuota. Entrai, analizzando con interesse le tecniche utilizzate
nei quadri. Chi li aveva dipinti si era davvero impegnato molto. Peccato per la tematica, così monotona e ripetitiva, che non gli aveva permesso di esprimersi al meglio.


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Ed infine ecco Marco Fedele con "Il Bar", del quale ci ha lasciato delle pagine intere.


Pagg. 15-16


Era sera. Parenzo si crogiolava nella primavera con la dolcezza di un neonato nella culla. Il Levante spirava mansueto, spruzzando sulla città e sul porto un aroma floreale fresco e inebriante. Aveva smesso di piovere, la temperatura era di poco sopra ai dieci gradi e l’hotel Rainbow, isolato in periferia e ancora bagnato, era proprio sulla rotta della brezza. Se avesse potuto, avrebbe rabbrividito.
Domagoj, seduto al bancone del bar accanto alla hall, osservava Zlatan contare i soldi al centro della stanza e rimuginava con un brandy sulla sua sorte. Sul groppone quarantasei anni, una guerra civile e quattro uomini a cui aveva ficcato una pallottola in corpo; quattro cadaveri, senza contare quelli durante la grande burrasca in Bosnia.
Era stato fortunato e sfortunato allo stesso tempo. Fortunato perché, a differenza di amici e parenti, era riuscito a scamparla e a prosperare al sicuro in una località tranquilla davanti al mare. Poi, di fronte al suo attuale datore di lavoro al tavolo con i due italiani, si sentiva irrimediabilmente tagliato fuori.
Zlatan aveva la metà dei suoi anni, parlava tre lingue ed era direttore dell’hotel, un impiego onesto e rispettabile, svolto tra il più sincero consenso sociale e sotto la sua spassionata tutela.
Domagoj assaporò il peso della pistola sotto la giacca. Se non fosse stato nel posto sbagliato al momento sbagliato, a quest’ora forse avrebbe goduto della stessa importanza e, magari, a casa lo avrebbero atteso una moglie e dei figli. Ma lui era a Monstar durante l’assedio e, dopo aver trascorso la giovinezza a seppellire genitori e sorella e a impratichirsi nell’arte del combattimento senza quartiere, non se la sentiva più di invertire la rotta e mettere su famiglia. Inoltre, la sua occupazione aveva il vantaggio dell’indipendenza. Zlatan poteva non soddisfare più le aspettative della clientela e sarebbe stato liquidato in fretta, lui avrebbe messo a disposizione i suoi servizi a un altro compratore con lo stesso appannaggio e gli stessi privilegi. Poi, nella sua posizione si beneficiava della possibilità di rinunciare alle luci della ribalta.


Pagg. 85-86


Non c’è enologo che solo a sentir parlare di Collio non percepisca sul palato il soave sapore dei suoi vini. Se si viaggia all’interno di questa piccola zona collinare a nord di Gorizia e compresa tra i fiumi Isonzo e Iudrio, a quattro passi dalla Slovenia, si ha l’impressione di essersi intrufolati in una Silicon Valley dell’uva. Tutto ruota intorno alla vite. Pochi placidi villaggi e solitari castelli strappano spazio alle immense e ordinate schiere di vigneti ; eventi e sagre dal sapore antico richiamano quanto sia radicato il rapporto tra l’uomo e i frutti della sua terra.
A Cormons, centro principale situato nell’area pianeggiante, si celebrano a settembre la festa provinciale dell’uva e a fine ottobre il Festival Jazz & Wine of Peace, in cui la musica e il teatro si affiancano a visite alle cantine e alle dimore storiche. A San Floriano del Collio c’è il Likof, rassegna enogastronomica con spettacoli e approfondimenti storici. A Dolegna del Collio è stata certificata la bottiglia di vino Friulano più grande del mondo.
È un mondo arcaico, dove le lancette dell’orologio sono sostituite dei ritmi della natura. Ci si inebria di quiete, alterata solo dai richiami della fauna e dal crepitio dei trattori ; un armonioso cocktail di umano e selvatico. Il sole è immacolato, il vento genuino, i colori sfrontati e infiniti.
Andando per Bruzzano, frazione settentrionale di Cormons, e seguendo la Strada provinciale 14 che gira intorno alla collina dove troneggia la chiesa di San Giorgio, ci si imbatte, poco prima del bivio per il bosco di Plessiva, nel borgo di Fainazza.
La presenza di un nucleo abitato è segnalata da un incrocio e da un rustico in pietra grigia bravo a offuscare, per chi viene da Bruzzano, la stradina diretta all’interno del paese.
È un percorso scomodo; anche l’autobus di linea, quando vi si introduce, deve effettuare mille manovre per evitare di ingarbugliarsi. I residenti conoscono a memoria gli orari della corriera e ben si guardano dal mettersi in movimento in quei periodi, per non essere causa di ulteriori disagi al traffico.
Dopo un breve pendio costeggiato da peschi e ciliegi c’è uno slargo rettangolare con in mezzo una rotonda di costruzione recente. È il centro commerciale del luogo: fermata del pullman, una cappella bianca e minuta, un primo gruppo di case tra cui spicca la trattoria Calisela del vecchio Gregorio Vascotto e lo spaccio della signora Rosina Basiaco. Penetrando nelle successive diramazioni, Via Pordenone, Via Sant’Adalberto e Via Vecchia Masseria, altri casali ordinati e recintati, con aiuole fiorite e un bel mastino di guardia, intervallati da orti e ulivi. In tutto neanche duecento anime a ravvivare l’insediamento.


Pagg. 115-116


Erano ancora le nove di sera.
«Ma cossa volè che ve digo ?» sbuffò Gregorio Vascotto dopo aver servito il caffè a due avventori. «El comissario me ga dito: ‘Xe meo esser qua e no per bagolar !’»
Appoggiata dietro al bancone, Laura seguiva senza fiatare il pesante divincolarsi del marito tra tavolini e gambe distese. La pensava come Rosina. Gregorio non era mai stato un buon oratore e tanto meno uno che si prendesse la briga di puntellare un dibattito. Lo aveva sempre visto sovraintendere il bar con quella miscela di spocchia e cinismo buona a estraniarlo dalle dispute politiche o sportive, puntuali ad accendersi a una certa ora tra i frequentatori abitudinari. I malevoli ritenevano che evitare di schierarsi fosse la condotta migliore per mantenere la clientela di un’eventuale opposta fazione, lui rispondeva tranquillo che non era una sua prerogativa rimestare le beghe altrui.
Da quanto Laura aveva sunto dagli altri, Gregorio a poco a poco si era costruito una maschera da mummia con cui usare la parola solo per le ordinazioni e a cui consegnare gli spiccioli al momento di pagarle. Eppure adesso tutti quanti pendevano dalle sue labbra, nella speranza di ottenere qualche indiscrezione in più sulla riunione di quella sera.
«El comissario xe un foresto», sottolineò e non ci fu bisogno di postille.
Sebbene Dante Mucchiut fosse chino tra le pagine della copia giornaliera de Il Piccolo, prelevata dal frigorifero dei gelati, le sue orecchie cercavano di captare qualsiasi segnale utile per sciogliere il rompicapo che lo accomunava ai presenti.
Tutti decifravano l’odio che gli balenava nel cervello verso Nereo Godeas, quando ne scrutava il passeggiare preoccupato. Se Dante era finito in un guazzabuglio, era perché aveva violato la sua consueta riservatezza, accettando la proposta del vicino di casa di districare la loro controversia al Calisela.
Il paese aveva dato a entrambi la stessa considerevole dose di natali, ma nessuno si ricordava di averli visti scambiare più di quattro parole alla volta. Dante aveva con il tempo ridimensionato la sua vita sociale a una debole nenia di mugugni consumati in privato, e a poche comparsate in pubblico degne di una grande diva dello schermo.




Allora cosa ne pensate dei nostri tre autori? Ricordate di passare su Dark Zone per supportarli e per leggere dei libri di qualità!  


Ciao e alla prossima!

*Enrico*

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