Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Doppia intervista d'Ottobre
Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus con la nostra rubrica in collaborazione con Dark Zone, ovvero Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, oggi intervisteremo l'autrice de "L'ultima Cura" e l'autore de "La casa dalle radici insanguinate", mi riferisco a Elena Mandolini, Roberto Ciardello, che oltre ad aver risposto alle nostre domande ci hanno dato la possibilità di leggere alcuni estratti dai loro romanzi...
Ora però è tempo dell'intervista!
Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?
E.M.: L'ultima cura è ambientato a Roma, città in cui sono nata e in cui vivo. La storia si svolge interamente all'interno del Sant'Anna un ospedale, immaginario, famoso per il reparto di neurologia. Ho tentato di non prendere spunto da strutture sanitari esistenti e ho cercato di inventare questo ospedale partendo da zero, ideando anche ogni singola stanza o corridoio: per scrivere questo libro avevo bisogno di specifiche caratteristiche strutturali.
Usciamo dall’ingresso e il sole mi avvolge con la sua carezzevole tepidezza.
«Ah, che meraviglia.»
Amo il sole e la sua energia arriva sempre dentro di me, riscaldandomi e facendo diventare piccolo anche il problema più insormontabile. Socchiudo gli occhi. Non sono affatto pentita di non aver portato gli occhiali da sole con me: voglio bearmi di ogni singolo raggio di luce.
Il giardino che ci separa dal chiosco ci lascia la possibilità di una gradevole, seppur breve, passeggiata. Infermieri e medici chiacchierano, pazienti in tuta o pigiama parlano con quelli che presumo essere amici o parenti; un paio di macchine escono dall’ingresso. Camminiamo vicine, senza imbarazzo, come se fossimo amiche da decenni.
3
Mi rimetto in tasca il biglietto datomi prima dall’infermiera Sofia. Manca poco a mezzogiorno e, nell’attesa, decido di scribacchiare e di mettere nero su bianco qualche idea che ho in mente. Scelgo una poltroncina singola, in un angolo dove arriva il sole. Oltre alla porta della 312, ce ne sono altre due, di cui una è priva di maniglia. Ne rimango incuriosita. Non ha etichette o nomi esterni e la fessura, anche da dove sono, mi appare liscia. Oltre a me non c’è nessuno e posso rilassarmi. Una leggera melodia di sottofondo giunge dagli altoparlanti. Una musica rilassante e avvolgente. Nonostante questo, la pagina bianca del quaderno mi crea un moto d’ansia, come quando so che sta per succedere qualcosa e mi delizio nell’attesa. Accade sempre quando scrivo qualcosa di nuovo.
La prima cosa che le si butta addosso è un ricordo.
Porta con sé la polvere del complesso di baracche abbandonato cinquant’anni fa. Ce n’era una con il tetto in lamiera ondulata e i muri in mattoni di fango e paglia, lo ricorda come fosse ora. Apparteneva a un vecchio con un occhio solo e tre denti in bocca, un vecchio che aveva il cervello danneggiato e tante bestie, carne troppo tosta per quelle gengive. Le ammazzava lì dentro, barattando le carcasse con qualche soldo che a sua volta dava via per un po’ di colla da sniffare e poco altro per reggersi in piedi; se si passava sulla strada al momento sbagliato le si poteva sentire urlare, grida così dannatamente simili a quelle dei bambini, sì, così simili, tanto che una giovane Belinda Adelina si era ritrovata più volte ad affrettare il passo con i palmi premuti forte sulle orecchie, ad accelerare per evitare inutilmente che la raggiungessero.
Anche la puzza di sangue stantio era difficile da evitare. Costante, così forte da spandersi tutt’intorno alla baracca. Un tanfo rugginoso che le foderava le narici, un umore invisibile ad avvolgere le mulattiere in un putrido mantello, stringendole in un abbraccio che parlava di vomitevoli coaguli organici. L’unico modo per non riempirsene troppo i polmoni era strofinarsi scorza di limone sotto il naso, quando si passava da quelle parti, e comunque il risultato non era garantito.
In camera di Danny c’è la stessa puzza.
Cupo fece rimbalzare lo sguardo per la stanza. Rapido, fotografico. Era proprio come la ricordava. Come l’aveva vista due mesi prima.
C’era il camino. Spento, non scaldava un cazzo. Si stava bene, comunque: evidentemente il timer dell’impianto di riscaldamento era scattato qualche ora prima, quasi sapesse di dover accogliere visitatori fradici e infreddoliti. C’era la porta chiusa a fondo sala, oltre la quale si scendeva al piano seminterrato, così gli aveva detto quella volta Marchetti girato di spalle, sfuggendo il suo sguardo come un bambino che stesse nascondendo qualcosa. C’erano gli autografi dei Rolling Stones incorniciati alla parete di destra, datati 1994, London, «great stuff!» Il divano in pelle bianca e gli arazzi che solo a guardarli parlavano di soldi. Tanti soldi.
Aveva già visto anche il pappagallo, che lo osservava curioso dondolando la testa, artigliato al trespolo di legno.
Fischiò come si fischia sgarbatamente a una bella ragazza, l’animale, e all’improvviso a Cupo venne da pensare che quei due facessero sesso sul divano davanti al pennuto, una donna e due uccelli; che il gioielliere fischiasse apprezzamenti alla moglie giocando a «il Bruto e la Curiosa Innocente», prendendola con la forza mentre lei opponeva una finta resistenza. C’era un lieve strato di polvere a coprire le costose suppellettili sulle mensole, e nell’aria ancora quel senso di sporcizia e trascuratezza che tanto stonava con l’ambiente. Faceva prudere il naso.
Ma soprattutto c’era la cassaforte.
Invisibile, eppure era lì, lo sapeva. Nascosta dietro un olio su tela raffigurante una porta semiaperta, oltre la quale si indovinava lo scorcio di un’isola deserta bagnata da un mare cristallino: tratti distorti, sinuosi e allucinati a suggerire l’idea che si trovasse in un’altra dimensione.
Cupo aveva pensato che doveva trattarsi della versione del Paradiso secondo l’artista, e quasi per una scommessa con se stesso l’aveva trovata anche lui, spostando il quadro in un momento di assenza del padrone di casa: pesante anche solo a guardarla, il color dell’acciaio, la manopola della combinazione come solo nei film aveva visto.
La porta per il Paradiso.
Il suo Paradiso.
E adesso era tornato per prenderne la chiave.
La pioggia di febbraio affogava le tenebre.
Increspava le pozzanghere sull’asfalto, facendo tremolare sulla superficie il riflesso giallastro dei lampioni. Proiettili liquidi scendevano di sbieco in raffiche di kalashnikov, bersagliando gli alberi sui fianchi della collinetta, impastando la terra molle sotto il tappeto di foglie secche. Lo scroscio dell’acqua e il sibilo continuo delle fronde nel vento coprivano gli altri suoni della sera, ammesso che ve ne fossero.
A un livello più basso rispetto alla strada, sul terrapieno che scendeva verso la parte abitata del quartiere, tre sagome giacevano tra i cespugli oltre il guardrail dell’ultima curva, a pochi metri da Villa Marchetti. Lo stesso colore della notte, mute e passive nel temporale, parevano sacchi da giardinaggio abbandonati. Le gocce scoppiavano fredde sul nylon nero producendo un rumore secco, dita esperte di un dattilografo impazzito. Se ne stavano lì, inerti nella tempesta e tra le foglie volanti, invisibili ai fari del SUV che risaliva quella gobba di terra con il cofano puntato verso la cima arrotondata. Verso l’ultima costruzione raggiungibile dall’unica strada, quella più in alto delle altre.
Quella più isolata.
Le luci degli stop si accesero in prossimità dell’ennesimo tornante, colorando per un istante le gocce sorprese a mezz’aria e facendole brillare d’un vivace rosso artificiale; poi il muso del veicolo si ritrovò davanti al cancello della villa. Un lampeggiatore arancione si attivò in alto, illuminando a sua volta squarci di pioggia sotto un cielo senza luna; con un ronzio il cancello iniziò a scivolare sul binario, spalancandosi sul lusso.
Qualcosa oltre il guardrail si mosse.
Il ruggito del temporale sopra i tetti di uno dei quartieri più facoltosi di Roma fu talmente rabbioso che assorbì i rumori sul terrapieno, a pochi passi dalla villa. Rami secchi che si spezzavano, qualcosa di pesante che scivolava sul fango, una bestemmia. Vento e acqua coprirono schiaffi rapidi di scarpe nelle pozzanghere, laddove l’asfalto formava piccole conche di imperfezione.
E qualcosa di brusco, metallico: l’armarsi di una pistola.
Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?
E.M.: L'ultima cura è ambientato a Roma, città in cui sono nata e in cui vivo. La storia si svolge interamente all'interno del Sant'Anna un ospedale, immaginario, famoso per il reparto di neurologia. Ho tentato di non prendere spunto da strutture sanitari esistenti e ho cercato di inventare questo ospedale partendo da zero, ideando anche ogni singola stanza o corridoio: per scrivere questo libro avevo bisogno di specifiche caratteristiche strutturali.
R.C.: L'ho ambientato a Roma, ma non sono sceso troppo nei dettagli. Abbiamo una villa in un quartiere di lusso, una gioielleria e un quartiere popolare, di quelli in cui sorgono gli alloggi del Comune, insomma (tutte cose che si trovano sia a Roma che in ogni metropoli). L'ho ambientato lì perché volevo dare al romanzo un'impronta italiana, popolare e nostrana, senza sconfinare in territori che non conosco. Anche perché mi piace l'idea che horror e thriller si possano trovare dietro l'angolo, magari mentre andiamo a fare la spesa nell'alimentari di fiducia (credo dia un maggiore senso di minaccia).
Da cosa è ispirata l’ambientazione?
E.M.: Avevo necessariamente bisogno di un ospedale, perché la storia si svolge in pochi giorni e Claudia, la protagonista, si trova al Sant'Anna per alcune cure neurologiche. Tra TAC e analisi del sangue, un ambiente claustrofobico era l'ideale per acuire i problemi e i tormenti di Claudia.
R.C.: Come ho detto sopra, l'ambientazione è direttamente legata al mio territorio, va da sé che il legame tra descrizioni e il mio "guardarmi intorno" è molto saldo.
Da cosa è ispirata l’ambientazione?
E.M.: Avevo necessariamente bisogno di un ospedale, perché la storia si svolge in pochi giorni e Claudia, la protagonista, si trova al Sant'Anna per alcune cure neurologiche. Tra TAC e analisi del sangue, un ambiente claustrofobico era l'ideale per acuire i problemi e i tormenti di Claudia.
R.C.: Come ho detto sopra, l'ambientazione è direttamente legata al mio territorio, va da sé che il legame tra descrizioni e il mio "guardarmi intorno" è molto saldo.
Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)
E.M.: Credo che il presente sia il tempo perfetto per L'Ultima cura. Claudia interagisce col mondo esterno grazie a internet e il suo cellulare, ma comunque ha uno spazio fisico ristretto in cui muoversi. Illimitati luoghi virtuali contro perimetri da non superare fisicamente: un contrasto perfetto.
R.C.: La casa dalle radici insanguinate è ambientato ai giorni nostri ma, trattandosi di una rapina in villa, potrebbe essere tranquillamente raccontato in un altro mondo, in un altro tempo.
Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?
E.M.: Pensandoci un poco potrei. Nascerebbe una storia diversa. Se l'avessi ambientata nel passato, avrei potuto usare differenti cure e procedure mediche; magari avrei potuto spingere ancora di più sull'aspetto psicologico, sull'angoscia e sulle paure. Sarebbe stata una storia differente, ma potente sotto altri aspetti.
E.M.: Credo che il presente sia il tempo perfetto per L'Ultima cura. Claudia interagisce col mondo esterno grazie a internet e il suo cellulare, ma comunque ha uno spazio fisico ristretto in cui muoversi. Illimitati luoghi virtuali contro perimetri da non superare fisicamente: un contrasto perfetto.
R.C.: La casa dalle radici insanguinate è ambientato ai giorni nostri ma, trattandosi di una rapina in villa, potrebbe essere tranquillamente raccontato in un altro mondo, in un altro tempo.
Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?
E.M.: Pensandoci un poco potrei. Nascerebbe una storia diversa. Se l'avessi ambientata nel passato, avrei potuto usare differenti cure e procedure mediche; magari avrei potuto spingere ancora di più sull'aspetto psicologico, sull'angoscia e sulle paure. Sarebbe stata una storia differente, ma potente sotto altri aspetti.
R.C.: Sì, le rapine esistono da tempo, purtroppo.
Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?
E.M.: Mi rimane più difficile immaginare la storia di Claudia nel futuro; possibile, senza dubbio, ma parecchio difficile.
Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?
E.M.: Mi rimane più difficile immaginare la storia di Claudia nel futuro; possibile, senza dubbio, ma parecchio difficile.
R.C.: Sì, sempre perché il tema "rapine" è molto versatile.
Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?
E.M.: Attualmente sto lavorando a un romanzo che si svolge in un futuro distopico e i cui personaggi si muovono in differenti parti del mondo. Dietro l'angolo, c'è una trilogia ambientata nell'Europa dell'ottocento. Infine, direi un piccolo paesino dell'Abruzzo a inizio del novecento.
Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?
E.M.: Attualmente sto lavorando a un romanzo che si svolge in un futuro distopico e i cui personaggi si muovono in differenti parti del mondo. Dietro l'angolo, c'è una trilogia ambientata nell'Europa dell'ottocento. Infine, direi un piccolo paesino dell'Abruzzo a inizio del novecento.
R.C.: Essendo un gran lettore di noir e un patito di James Ellroy ed Edward Bunker, mi piacerebbe l'ambientazione carceraria. O magari inventare di sana pianta una città come ha fatto King con Castle Rock. O, ancora, qualcosa di più claustrofobico: un thriller-horror in un sommergibile non sarebbe male, ma bisognerebbe studiare molto o si rischierebbe di sbagliare... anche perché io in un sommergibile non sono mai stato.
Ora è arrivato il momento della lettura, cominciamo con il libro di Elena Mandolini, del quale potete ammirare la copertina proprio qui sotto:
1
Massaggio le tempie e mi guardo attorno. Un letto comodo e un comodino dove si trovano un bicchiere e una bottiglia d’acqua frizzante. Il letto, appoggiato a una parete color crema, è sormontato da una mensola con dei faretti a led e pulsanti vari. Accanto un minibar. Alla parete di fronte c’è una TV, spenta, un mobile con dei ripiani a formare un ponte, al di sotto del quale sono stati posizionati un tavolino e due sedie dall’aspetto comodo. Una finestra a due ante mi mostra una mattinata di sole e cime di alberi rigogliosi. Un ambiente asettico, ma caldo.
Ah già… giusto!
Guardo la scritta stampata sul bordo dei cuscini: «Ospedale Sant’Anna».
2
Ora è arrivato il momento della lettura, cominciamo con il libro di Elena Mandolini, del quale potete ammirare la copertina proprio qui sotto:
1
Massaggio le tempie e mi guardo attorno. Un letto comodo e un comodino dove si trovano un bicchiere e una bottiglia d’acqua frizzante. Il letto, appoggiato a una parete color crema, è sormontato da una mensola con dei faretti a led e pulsanti vari. Accanto un minibar. Alla parete di fronte c’è una TV, spenta, un mobile con dei ripiani a formare un ponte, al di sotto del quale sono stati posizionati un tavolino e due sedie dall’aspetto comodo. Una finestra a due ante mi mostra una mattinata di sole e cime di alberi rigogliosi. Un ambiente asettico, ma caldo.
Ah già… giusto!
Guardo la scritta stampata sul bordo dei cuscini: «Ospedale Sant’Anna».
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Usciamo dall’ingresso e il sole mi avvolge con la sua carezzevole tepidezza.
«Ah, che meraviglia.»
Amo il sole e la sua energia arriva sempre dentro di me, riscaldandomi e facendo diventare piccolo anche il problema più insormontabile. Socchiudo gli occhi. Non sono affatto pentita di non aver portato gli occhiali da sole con me: voglio bearmi di ogni singolo raggio di luce.
Il giardino che ci separa dal chiosco ci lascia la possibilità di una gradevole, seppur breve, passeggiata. Infermieri e medici chiacchierano, pazienti in tuta o pigiama parlano con quelli che presumo essere amici o parenti; un paio di macchine escono dall’ingresso. Camminiamo vicine, senza imbarazzo, come se fossimo amiche da decenni.
3
Mi rimetto in tasca il biglietto datomi prima dall’infermiera Sofia. Manca poco a mezzogiorno e, nell’attesa, decido di scribacchiare e di mettere nero su bianco qualche idea che ho in mente. Scelgo una poltroncina singola, in un angolo dove arriva il sole. Oltre alla porta della 312, ce ne sono altre due, di cui una è priva di maniglia. Ne rimango incuriosita. Non ha etichette o nomi esterni e la fessura, anche da dove sono, mi appare liscia. Oltre a me non c’è nessuno e posso rilassarmi. Una leggera melodia di sottofondo giunge dagli altoparlanti. Una musica rilassante e avvolgente. Nonostante questo, la pagina bianca del quaderno mi crea un moto d’ansia, come quando so che sta per succedere qualcosa e mi delizio nell’attesa. Accade sempre quando scrivo qualcosa di nuovo.
Allora cosa ne pensate? Ora invece leggeremo l'opera di Roberto Ciardiello, buona lettura!
La prima cosa che le si butta addosso è un ricordo.
Porta con sé la polvere del complesso di baracche abbandonato cinquant’anni fa. Ce n’era una con il tetto in lamiera ondulata e i muri in mattoni di fango e paglia, lo ricorda come fosse ora. Apparteneva a un vecchio con un occhio solo e tre denti in bocca, un vecchio che aveva il cervello danneggiato e tante bestie, carne troppo tosta per quelle gengive. Le ammazzava lì dentro, barattando le carcasse con qualche soldo che a sua volta dava via per un po’ di colla da sniffare e poco altro per reggersi in piedi; se si passava sulla strada al momento sbagliato le si poteva sentire urlare, grida così dannatamente simili a quelle dei bambini, sì, così simili, tanto che una giovane Belinda Adelina si era ritrovata più volte ad affrettare il passo con i palmi premuti forte sulle orecchie, ad accelerare per evitare inutilmente che la raggiungessero.
Anche la puzza di sangue stantio era difficile da evitare. Costante, così forte da spandersi tutt’intorno alla baracca. Un tanfo rugginoso che le foderava le narici, un umore invisibile ad avvolgere le mulattiere in un putrido mantello, stringendole in un abbraccio che parlava di vomitevoli coaguli organici. L’unico modo per non riempirsene troppo i polmoni era strofinarsi scorza di limone sotto il naso, quando si passava da quelle parti, e comunque il risultato non era garantito.
In camera di Danny c’è la stessa puzza.
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Cupo fece rimbalzare lo sguardo per la stanza. Rapido, fotografico. Era proprio come la ricordava. Come l’aveva vista due mesi prima.
C’era il camino. Spento, non scaldava un cazzo. Si stava bene, comunque: evidentemente il timer dell’impianto di riscaldamento era scattato qualche ora prima, quasi sapesse di dover accogliere visitatori fradici e infreddoliti. C’era la porta chiusa a fondo sala, oltre la quale si scendeva al piano seminterrato, così gli aveva detto quella volta Marchetti girato di spalle, sfuggendo il suo sguardo come un bambino che stesse nascondendo qualcosa. C’erano gli autografi dei Rolling Stones incorniciati alla parete di destra, datati 1994, London, «great stuff!» Il divano in pelle bianca e gli arazzi che solo a guardarli parlavano di soldi. Tanti soldi.
Aveva già visto anche il pappagallo, che lo osservava curioso dondolando la testa, artigliato al trespolo di legno.
Fischiò come si fischia sgarbatamente a una bella ragazza, l’animale, e all’improvviso a Cupo venne da pensare che quei due facessero sesso sul divano davanti al pennuto, una donna e due uccelli; che il gioielliere fischiasse apprezzamenti alla moglie giocando a «il Bruto e la Curiosa Innocente», prendendola con la forza mentre lei opponeva una finta resistenza. C’era un lieve strato di polvere a coprire le costose suppellettili sulle mensole, e nell’aria ancora quel senso di sporcizia e trascuratezza che tanto stonava con l’ambiente. Faceva prudere il naso.
Ma soprattutto c’era la cassaforte.
Invisibile, eppure era lì, lo sapeva. Nascosta dietro un olio su tela raffigurante una porta semiaperta, oltre la quale si indovinava lo scorcio di un’isola deserta bagnata da un mare cristallino: tratti distorti, sinuosi e allucinati a suggerire l’idea che si trovasse in un’altra dimensione.
Cupo aveva pensato che doveva trattarsi della versione del Paradiso secondo l’artista, e quasi per una scommessa con se stesso l’aveva trovata anche lui, spostando il quadro in un momento di assenza del padrone di casa: pesante anche solo a guardarla, il color dell’acciaio, la manopola della combinazione come solo nei film aveva visto.
La porta per il Paradiso.
Il suo Paradiso.
E adesso era tornato per prenderne la chiave.
***
La pioggia di febbraio affogava le tenebre.
Increspava le pozzanghere sull’asfalto, facendo tremolare sulla superficie il riflesso giallastro dei lampioni. Proiettili liquidi scendevano di sbieco in raffiche di kalashnikov, bersagliando gli alberi sui fianchi della collinetta, impastando la terra molle sotto il tappeto di foglie secche. Lo scroscio dell’acqua e il sibilo continuo delle fronde nel vento coprivano gli altri suoni della sera, ammesso che ve ne fossero.
A un livello più basso rispetto alla strada, sul terrapieno che scendeva verso la parte abitata del quartiere, tre sagome giacevano tra i cespugli oltre il guardrail dell’ultima curva, a pochi metri da Villa Marchetti. Lo stesso colore della notte, mute e passive nel temporale, parevano sacchi da giardinaggio abbandonati. Le gocce scoppiavano fredde sul nylon nero producendo un rumore secco, dita esperte di un dattilografo impazzito. Se ne stavano lì, inerti nella tempesta e tra le foglie volanti, invisibili ai fari del SUV che risaliva quella gobba di terra con il cofano puntato verso la cima arrotondata. Verso l’ultima costruzione raggiungibile dall’unica strada, quella più in alto delle altre.
Quella più isolata.
Le luci degli stop si accesero in prossimità dell’ennesimo tornante, colorando per un istante le gocce sorprese a mezz’aria e facendole brillare d’un vivace rosso artificiale; poi il muso del veicolo si ritrovò davanti al cancello della villa. Un lampeggiatore arancione si attivò in alto, illuminando a sua volta squarci di pioggia sotto un cielo senza luna; con un ronzio il cancello iniziò a scivolare sul binario, spalancandosi sul lusso.
Qualcosa oltre il guardrail si mosse.
Il ruggito del temporale sopra i tetti di uno dei quartieri più facoltosi di Roma fu talmente rabbioso che assorbì i rumori sul terrapieno, a pochi passi dalla villa. Rami secchi che si spezzavano, qualcosa di pesante che scivolava sul fango, una bestemmia. Vento e acqua coprirono schiaffi rapidi di scarpe nelle pozzanghere, laddove l’asfalto formava piccole conche di imperfezione.
E qualcosa di brusco, metallico: l’armarsi di una pistola.
Ora che ne avete avuto un assaggio pensate che li leggerete? Saranno le vostre letture in queste giornate ancora calde d'Ottobre? O attenderete giorni più uggiosi in cui la luce cede sempre più passo alle tenebre?
Fatecelo sapere qui sotto con un commento, intanto io vi devo salutare!
Ciao e alla prossima!
*Enrico*
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