domenica 1 dicembre 2019

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi, Una tripla intervista a Dicembre!

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Una tripla intervista a Dicembre!



Ciao a tutti e bentornati su Codex Ludus! Rieccoci qui con un appuntamento di casa Dark Zone nella nostra rubrica Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi. Oggi abbiamo qui con noi Chiara Casalini, Sonia Cardini e Daniele Batella, li intervisteremo e leggeremo degli estratti dai loro romanzi...

Che l'intervista abbia inizio! 


Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?

C.C.: Nika è ambientato in un paesino non precisato del nord Italia. Ammetto di aver preso come base il mio paese natale, ma l’ho mantenuto anonimo per renderlo in qualche modo più universale. Le realtà di provincia non sono così dissimili. Ho scelto questa ambientazione per i temi stessi trattati nella storia, per mostrare qualcosa di vero o, comunque, molto verosimile.

S.C.: Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti, una casa vicino un lago montano. 
È la prima volta che scrivo un libro con ambientazione americana, volevo quindi sperimentare.

D.B.: È difficile rispondere a questa domanda, perché il romanzo si chiama End of the Road Bar e si potrebbe dire che l’ambientazione principale è proprio questo strano locale, accogliente e misterioso allo stesso tempo. Ciononostante, dal momento che la narrazione si sviluppa sui ricordi dei clienti, le ambientazioni in realtà sono moltissime: Roma, Phoenix, New Orleans, l’Antartide, l’Inghilterra… Avevo bisogno di raccontare di luoghi e terre che hanno sempre stuzzicato la mia fantasia.

Da cosa è ispirata l’ambientazione?

C.C.: Dall’approccio alla vita che si ha nei paesi, in Italia, dal contrasto che spesso si genera col “diverso”, con chi ascolta o suono metal, dalla diffusa convinzione di conoscere chi vive in una piccola realtà territoriale e dalla facilità di giudizio e di etichettare certi comportamenti.

S.C.: Mi piace prendere ispirazione dagli incubi o da alcune vicende realmente accadute. In questo caso un incubo.

D.B.: L’ambientazione è nata una mattina all’alba, dopo aver accompagnato un’amica a prendere il treno nella piccola stazione di un paesino umbro. Tornando a casa con gli occhi pieni di sonno mi sono accorto di un piccolo locale cui non avevo mai prestato molta attenzione: si tratta di un bar per ferrovieri, mezzo nascosto da una siepe poco curata. Il nome, “Il Capolinea”, ha fatto nascere in me una scintilla. Da lì, l’idea della “fine della strada” e del bar. 

Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo?

C.C.: Decisamente no. La storia è nata in un preciso contesto, nel presente e vive di realtà, se vogliamo. Per una volta, ho accantonato il fantasy e dipinto il mondo, forse, in modo molto più diretto e a tratti ancor più crudo. Non ci sono scappatoie in Nika, l’antagonista non è un mostro di fantasia, il che lo rende ancora più forte come impatto.

S.C.: Hmm bella domanda, di solito ambiento i miei romanzi sempre al presente quindi no, non ci ho mai pensato.

D.B.: End of the Road Bar è legato a doppio filo col nostro tempo: sarebbe molto difficile per me immaginarlo ambientato in un’altra ambientazione o addirittura in un’altra dimensione. Le storie dei clienti sono forse un po’ estreme ma comunque molto umane e contemporanee. 

Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?

C.C.: In parte, forse, ma verrebbe a mancare un elemento cardine, dato da un certo tipo di musica, attraverso la quale i due protagonisti spesso comunicano.

S.C.: No, appunto ;-)

D.B.: Come per la risposta precedente, le vite dei sette si compiono nell’arco di un’ottantina d’anni (considerando che il più giovane ha 25 anni circa e il più anziano ben oltre i settanta) e il tempo ha un ruolo chiave nella storia. Non potevano che vivere in questo secolo.

Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?

C.C.: No, o meglio, non voglio. Preferisco sperare che nel futuro le cose possano essere migliori.

S.C.: Neppure. 

D.B.: ..........

Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?

C.C.: Che domanda difficile…
Islanda, perché la amo, ma forse finirei con l’avere ancora più voglia di andarci. Questo è pericoloso!
Al mare, ancora non ho scritto nulla ambientato vicino a uno dei posti che più amo. Non mi viene in mente una località precisa, basta che ci sia il mare.
Il Castello di Soncino. Mi sa che sto barando, però. Ho già iniziato a scrivere una storia che lo vede come luogo cardine e me ne sono innamorata.
Diciamo che pensi di restare a scrivere dell’Italia ancora per un po’, perché trovo abbia molto da dare come ambientazioni. È ricca di spunti, basta saperli cogliere, sia a livello territoriale che di folklore e anche socio-culturali.

S.C.: Amo l’Italia, quindi scelgo Milano città caotica, Lucca città d’arte e per ultimo magari un altro ambientato all’estero.

D.B.: Amerei molto ambientare un romanzo in un mondo sconosciuto, magari un pianeta lontano, proprio per sperimentare un’ambientazione nota. Non disdegnerei nemmeno l’idea di un reame completamente frutto della mia fantasia. Mentre, se parliamo di luoghi reali, direi senza dubbio Venezia, una delle mie città preferite al mondo.


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Ora è il momento degli estratti! Non mi resta che augurarvi una buona lettura... e non dimenticatevi di ammirare le copertine dei libri dei nostri autori!


Alle cinque e mezza di domenica pomeriggio, la zona industriale risultava un deserto di cemento intervallato da aiuole verdi, che sembravano una presa in giro, un misero tentativo di ricordare che esisteva anche una natura ben lungi dall’assomigliare a quegli alberelli sofferenti. A Nika appariva una calzante rappresentazione della condizione umana, dove di notte quelle piante si trasformavano in spettri neri coccolati dalle puttane e dal loro passeggiare. Era sempre stata lei a volere andare lì. 
Black si fermò al solito posto, uno spiazzo al limitare con i campi che confinavano con la Z.A.I., scendendo e facendo il giro per aprirle lo sportello.


Nika aprì e accese la luce, sfilando rasente al muro fino all’attaccapanni, dove ripose la borsa e poggiò alla parete le due custodie, mentre Black richiudeva la porta con il piede. Si fermò a guardare uno scenario a lui noto, visto e deriso tante volte, che invece ora gli era arrivato come un pugno nello stomaco. Infatti, ci si doveva fermare appena oltre la soglia, trovandosi davanti gli anfibi di Nika, in questo caso quelli a ventotto fori. Seguivano a destra, alla distanza di una spanna, gli stivali col tacco, sistemati in posizione arretrata rispetto agli anfibi e agli stivali senza tacco che le arrivavano sopra il ginocchio, distanziati di un’altra spanna. A sinistra della porta, invece, c’erano le Crock nere parallele alla parete d’ingresso, che lei aveva scavalcato al buio come nulla fosse per accendere la luce. La stanza fungeva da soggiorno e cucina essendo un bilocale, l’angolo cottura si trovava alla destra di Black, il resto era spoglio: nessun quadro, nessuna foto, solo le librerie su cui campeggiavano libri, cd e DVD. Un tavolo con quattro sedie e quasi al centro un divano con penisola, grigio, sistemato di fronte al mobile a giorno, con TV e X-box, e tra essi un tavolino di vetro, dove c’erano sempre tre libri impilati sull’angolo inferiore sinistro, tre videogiochi sull’angolo superiore destro ed esattamente in mezzo era sistemato il posacenere.
A Black mancò il respiro.


La seguì con gli occhi andare in camera, accese dunque il televisore e cercò di accantonare i pensieri asfissianti.
Nika tardava a tornare, così si alzò e la raggiunse, fermandosi però sulla porta. Si appoggiò allo stipite con le braccia conserte, guardandola piegare e appendere i vestiti ammucchiati sul letto. La cosa sconvolgente era che per farlo si doveva districare in un labirinto, simile a un domino costruito sul pavimento, dove le tessere erano state sostituite da candele, mai accese, che disegnavano linee alternate bianche e nere.
[…]
Black staccò lo sguardo dalle candele e restò di stucco, accorgendosi di come era stata decorata la stanza.
«L’hai fatto tu?» le domandò a bocca aperta.
«Sì, ho steso una carta da parati avorio e poi l’ho dipinta, così il padrone di casa non ha di che lamentarsi» gli rispose in un misto di orgoglio e timidezza.
«E di cosa si dovrebbe lamentare, se è stupendo?»
Gli occhi di Black fecero il giro delle pareti, ritrovandosi in un bosco buio, tra alberi neri e intrecci di rami, che si aprivano dietro la testiera del letto, lasciando intravedere una luce calda, la luna e una figura indistinta sul fondo, in lontananza, simile a un fantasma appena oltre il limitare della foresta.



1)
Era giorno, ma non sapevo che ore fossero e da quanto tempo mi trovassi lì. 
Gli alberi frusciavano sotto un lieve venticello che soffiava a ovest in direzione del lago. La barca dondolava sotto le oscillazioni dell’acqua, e per un attimo mi parve di vedere una sagoma sopra di essa. 
Mi alzai facendo attenzione a non schiacciare i fiori e mi incamminai lungo la sponda. Dentro c’era qualcuno. Se ne stava immobile, dandomi le spalle, con lo sguardo verso l’orizzonte. Non ci misi molto a capire che quella figura era mia moglie.

2)
«Sono solo una ragazza un po’ timida per la verità. E vorrei tanto andarmene da Baker Lake. Non c’è molto divertimento qua. Anche a Groove non c’è nulla da fare. Dovrei spostarmi verso Ovest, nella cittadina.»

3)
 Verso mezzogiorno andai al centro abitato che distava da Baker Lake circa dieci miglia. Il paese, che comprendeva poco più di ottomila abitanti, era frequentato soprattutto in estate da turisti che arrivavano da ogni parte degli Stati Uniti.
Quando oltrepassai il cartello di benvenuto e mi ritrovai sulla strada principale capii che i residenti non erano abituati a vedere ospiti prima di maggio.



 .1
Amavano passeggiare per Jackson Square, nel quartiere francese e perdersi nelle colorate e uniche vie traboccanti profumi e insegne in legno. Partivano da Chartres Street, poi svoltavano per St. Ann Street e infine prendevano Bourbon Street. Lì la nonna si fermava a riposare i piedi, si sedeva al Lafitte’s Blacksmith bar per un cafè au lait, il caffè speziato con cicoria e bignè. Sean rimaneva nella sua carrozzina, a guardare quel mondo unico e inimitabile che lo circondava. 
Roteava gli occhi scuri e osservava le palazzine ornate dalle inferriate alle finestre, che si perdevano in ghirigori aggrovigliati attorno alle terrazze colorate e muoveva le manine, tutto eccitato. L’odore del cafè au lait lo faceva sorridere e starnutire, quando la nonna si avvicinava alle sue guance rosate e lo baciava: fin da piccolissimo associò quell’odore forte al senso di materno abbraccio che provava quando girava per le vie del quartiere francese. 
Anche la musica ebbe un ruolo importante nell’infanzia di Sean. Durante le sue gite con la nonna, Jackson Square era ancora teatro di artisti di strada, mimi e soprattutto musicisti jazz. Il suono metallico e accattivante delle trombe, le voci roche e romantiche dei cantanti, che rimbalzavano sugli edifici di mattoni rossi e raggiungevano i cuori dei passanti, volteggiando in acrobatiche melodie armoniche, furono il sottofondo musicale dei primi anni del bambino. Quello del quartiere francese era un microcosmo perfetto, figlio della cultura della vecchia Europa che si era inaspettatamente sposata con l’entusiasmo del nuovo mondo e gli echi ancestrali dell’Africa, dando origine a quella figlia creola che era New Orleans. 
Era un mondo di colori, suoni e profumi che attraversavano Sean fin dal suo primissimo respiro e lo accompagnavano durante il passaggio per il sentiero fiorito dell’infanzia. 

 .2
Al loro arrivo, furono piacevolmente accolti dall’abbraccio medievale di Cocullo: il paesino era arroccato su un colle, estrema propaggine meridionale del Monte Catini. Era un luogo antico, cinto da mura che circondavano il centro storico, le sue viuzze tortuose, le botteghe medievali, le pietre chiare che rivestivano strade e case. La piazza della Chiesa era piuttosto spaziosa, se comparata agli angoli e alle salite che correvano serpeggianti per il resto della cittadina. 
Già di buon mattino molti fedeli si erano radunati, pronti a vivere la cerimonia più importante di Cocullo, che richiamava ogni anno anche molti curiosi. C’erano macchine fotografiche ovunque, la campana suonava riecheggiando per il paese, e i bambini sulle spalle dei padri gridavano di felicità. Era una festività molto sentita e molto amata da tutta la popolazione, che, per l’occasione, si riversava in strada. 
La celebrazione sembrò lunghissima e noiosa alle orecchie di Zaccaria. La messa era stata preceduta persino da una bislacca cerimonia, con la folla che si metteva a tirare la campanella della cappella di San Domenico con i denti, per proteggerli da eventuali patologie. Il ragazzo li osservava a occhi spalancati, chiedendosi come fosse possibile credere ancora in questo genere di cose. 
Finalmente la statua del santo venne issata sulle spalle dei portantini e portata in processione: Zaccaria e la madre erano usciti dal portone aperto della chiesa per vederla e per salutarla, davanti al resto della folla impazzita. Il ragazzo dovette ammettere che lo spettacolo era interessante: la statua rappresentava San Domenico a braccia aperte, nella mano destra un pastorale dorato e incastonato nel petto ligneo un reliquiario contente il suo molare. 
Tutt’intorno, come cera che cola da una candela, una trentina di serpenti si contorceva, strisciando sul viso, infilandosi negli spazi tra l’aureola e la testa, pendendo dalle mani e attorcigliandogli i piedi. Zaccaria quasi sorrise a quella vista, trovando estremamente grottesco un serpente dal colorito grigiastro che sembrava voler tappare la bocca del santo, come a soffocarlo fra le sue letali spire.

 .3
Elizabeth era nata a Norwich, nel Norfolk. Terra di praterie infinite, di pianure devastanti sparse su una costa frastagliata e lambita dalle fredde lingue del Mare del Nord, orlate dai riccioli capricciosi delle correnti gelide e dai raggi freddi di un sole azzurro. Suo padre, Thomas Marshall Howard, era il duca di Norfolk. Elizabeth era la terza di tre figli; i suoi fratelli, Martin e William, erano gemelli ed erano nati tre anni prima di lei. Abitavano in una casa in campagna, un palazzo ricostruito sulle macerie di una fortificazione medievale, appena fuori Norwich; sua madre, Carol, discendeva da una nobile casata irlandese, aveva splendidi capelli rossi e i suoi stessi occhi verdi. 
La loro era un’esistenza privilegiata: il titolo del padre garantiva alla famiglia uno stile di vita altolocato, abbiente, e i figli erano stati educati all’etichetta e alle rigide regole dell’alta società. Fin da piccolissima, Elizabeth aveva mostrato un’indole dolce e riflessiva; tutti la amavano e la coccolavano, quando, ancora infante, gattonava per le enormi stanze della tenuta, gli occhioni verdi sbarrati e un grazioso sorriso stampato sul volto paffutello. 
Sua madre, Carol, non si era mai del tutto allineata con il comportamento che il suo status sociale pretendeva; era sempre stata una ragazza ribelle, e, con gli anni, il fuoco che bruciava la pira del suo cuore si era trasformato in letali carboni ardenti, macerie oscure che lanciavano ombre di fiamma.


Cosa ne pensate di questi tre romanzi di cui ne avete letto gli estratti? Siete pronti a leggerne la versione completa? Fatecelo sapere qui sotto con un commento, non lo leggeremo solo noi, ma anche gli autori!
Ora però dobbiamo proprio salutarvi, da Codex Ludus è tutto! Ciao e alla prossima! 

*Enrico*

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