martedì 26 novembre 2019

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi Una Tripla Intervista- parte 2

Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Una Tripla Intervista- parte 2








Ciao a tutti,
bentornati qui su Codex Ludus. Ritorna la rubrica dedicata agli ambienti romanzeschi in collaborazione con Dark Zone.
Se siete stati al Lucca Comics forse avrete anche avuto l’opportunità di conoscere la famiglia Dark Zone se invece siete stati sfortunati come me e vi siete presi tanta pioggia allora sarà per la prossima fiera.
Ma bando alle ciance iniziamo subito con l’intervista alle nostre autrici: Giovanna Avignoni, Barbara Parodi e Debora Mayfair!

1.   Dove è ambientato il tuo romanzo? Perché lo hai scelto?

Giovanna: Nel romanzo non faccio menzione diretta al luogo geografico. Si percepisce che si tratta di un luogo di mare da alcuni piccoli dettagli enunciati durante la narrazione. Che, invece, si tratti del mare di Roma, si percepisce dai dialoghi di due personaggi secondari.

Debora: È ambientato in un futuro distopico, in cui il mondo è a un passo dal Ragnarök e la foresta di ferro ha preso il sopravvento. È un mondo segnato da un inverno perenne in cui Re, Regine, Streghe e Stregoni hanno delle possibilità in più di sopravvivere, grazie ai poteri di cui sono dotati.

Barbara: Il mio romanzo è ambientato in Colorado, in un piccolo paese. L’ho scelto per una questione puramente casuale: cercavo una location per la storia e ho puntato il dito sulla mappa: Colorado. La scelta del paese mi ha richiesto più tempo perché volevo qualcosa il cui nome mi piacesse e mi suonasse bene fin da subito.

2.   Da cosa è ispirata l’ambientazione?

Giovanna: L’ambientazione si ispira ai luoghi e agli ambienti della mia quotidianità.

Debora: Ho pensato a cosa comporterebbe vivere in un mondo governato da una despota sull’orlo del delirio, con il potere gelido derivatole dalla luna nel sangue.

Barbara: Credo sia ispirata alla lunga tradizione dei manicomi come luoghi infestati e spaventosi. Certo, una parte della scelta è stata dettata da esperienze personali, quando da adolescente si fanno quelle sciocchezze del tipo “Dai, entriamo in quel luogo abbandonato, cosa vuoi che accada?”
L’idea di un istituto buio e dei suoi corridoi lunghi mi è sempre sembrata spaventosa già di suo e l’ho voluta usare per Segui le mosche.

3.   Hai mai pensato di scriverlo in un altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es. ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico, in quello attuale, ecc)

Giovanna: Sinceramente, non mi è mai capitato di pensarlo in altra situazione.

Debora: Ci ho pensato durante la stesura dei primi volumi della serie, infatti sono ambientati nel nostro presente, mentre per il terzo si cambia registro.


Barbara: Riscriverlo cambiandone il genere no, ma luogo sì. Ho pensato più volte di ambientarlo in Italia e di rendere omaggio al mio paese. Tuttavia, mi sono detta che quando una storia nasce in un modo deve rimanere così. Avrò tempo per scrivere horror ambientati nella Pianura Padana – cosa che del resto sto già facendo.

4.   Riesci ad immaginare la tua storia nel passato?

Giovanna: La storia sulla quale ruota il mio romanzo, potrebbe essere adatta anche al passato. Si tratta di violenza fisica e psicologica su una bambina e, purtroppo, è storia vecchia quanto vecchio è il mondo.

Debora: Certo, le basi che spiegano le dinamiche delle relazioni che legano i protagonisti affondano le radici in fiabe e miti antichi.

Barbara: Sì. Con l’accortezza di cambiare qualche dettaglio potrebbe tranquillamente essere ambientata anche nell’Ottocento.


5.   Riesci ad immaginare la tua storia nel futuro?

Giovanna: Spero che il futuro liberi i deboli e i bambini dai soprusi e dalle violenze, per questo vorrei non immaginare la storia nel futuro.

Debora: Sì, potrebbe svolgersi anche nel futuro.

Barbara: Non lo so. Forse in una società futuristica avrebbero strumenti e mezzi più avanzati per dimostrare l’inesistenza del paranormale, per esempio.


6.   Tre posti in cui vorresti ambientare i tuoi prossimi libri?

Giovanna:
1)   Mare, perché mi aiuterebbe nelle descrizioni e nelle percezioni.
2)   Una stanza, per mettermi alla prova sulla capacità di sfondarne i muri.
3)   La borsa di una donna, perché dentro c’è il mondo intero.

Debora: Ho scritto dei romanzi ambientati a Parigi, a New York e in Irlanda… per il prossimo volume mi piacerebbe mettermi alla prova indicando un punto a caso del mappamondo e ambientando lì la nuova storia.

Barbara: Sicuramente la Pianura Padana. Vivo accanto al fiume Lambro e le campagne qui attorno offrono scorci molto belli e molto inquietanti, quindi direi che per le prossime storie attingerò ai paeselli limitrofi o quello in cui vivo io. Scrivendo horror mi piacerebbe che i prossimi luoghi cardine fossero una casa, un bosco e un vecchio cascinale.


Non possono poi mancare gli estratti quindi non scappate via subito












[…] Stesa su una barella del pronto soccorso, Gloria era intontita e dolorante.

Ricordava poco di quanto le fosse accaduto. Aveva soltanto una vaga reminiscenza di una caduta improvvisa, avvenuta senza aver inciampato o aver messo un piede in fallo.

Era sola, stesa su una brandina scomoda, con la mente confusa, i ricordi che si rincorrevano senza giungere a destinazione e la spalla e il braccio che le pulsavano in maniera atroce.

Intorno c’erano altre persone stese sulle brandine o su letti di fortuna e coperte in malo modo dai teli verdi, tutte nello stesso enorme ambiente illuminato da luci al neon per niente riposanti. Alcune urlavano e maledicevano il mondo e il cielo a voce troppo alta; altre sopportavano l’attesa e il dolore in un dignitoso silenzio.

Le spie dei macchinari scandivano il tempo immobile in quella stanza che odorava di disinfettante e sudore. […]

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

[…] Nello studiolo che affacciava sulla piazza, posto su un vecchio cavalletto di legno, c’era un quadro non ancora completato. Era in quella stanza da parecchio tempo e sembrava aspettarla con la pazienza di un amico silenzioso.

Lo guardò compiaciuta, reclinando la testa verso sinistra come per inquadrare meglio la figura di donna che, grazie al suo attento lavoro, aveva preso pian piano una forma ben definita su quella che a lungo era stata solo una tela bianca.

Vi era ritratto il volto di una ragazza avvolto da un boa di piume di struzzo dai tenui toni color pastello. La giovane guardava lontano verso un punto indefinito. Lo sguardo sembrava pensieroso e la bocca era chiusa, come se dovesse trattenere un dolore. La mano destra accarezzava il collo, pareva quasi che la fanciulla del quadro cercasse conforto o addirittura protezione da quel tocco delicato.

Gloria aveva deciso di dipingere di nero lo sfondo della sua opera. Pensava che in quel modo avrebbe dato maggior luce alla figura mettendo in risalto la malinconia e la solitudine che era intenzionata a rappresentare.

La ragazza del quadro era lei, Gloria lo sapeva, anche se non le somigliava. Era giovane e bella, ma del tutto indifesa, schiacciata da un buio totale, da una tristezza spaventosa e spettrale.

Il sole stava oltre, lontano, insieme alla luce che non splendeva all’interno della tela quasi ultimata.

I capelli rossi e un poco mossi non avevano nulla a che vedere con il nero corvino di quelli di Gloria e l’eccentrico abbigliamento non era per nulla simile alle maglie larghe che lei era solita indossare. In comune avevano soltanto quel senso di solitudine e di incompletezza che la faceva stare così male. […]

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

[…] Con il fiato ancora corto e le spalle abbandonate sul portone ben chiuso, guardava lo spazio intorno a sé come se quello fosse un luogo di salvezza. Era arrivata alla sua isola che la rendeva naufraga senza scampo.

Questa volta decise di salire al piano con l’ascensore perché era ancora troppo turbata e tremante e, per questo motivo, non era del tutto certa di poter sostenere il peso della carrozzina e del suo meraviglioso contenuto.

Sentiva che le gambe non l’avrebbero sorretta più di tanto, rischiando di cadere per le scale con Clelia. Avrebbe voluto piangere e urlare e, se con lei nell’ascensore non ci fosse stata anche sua figlia, avrebbe gridato forte la propria rabbia fino a tirarla fuori da se stessa e a scaraventarla con energia contro lo specchio consumato che, senza alcuna clemenza né finte parole, le mostrava la sua immagine sconvolta.

Nello specchio dell’ascensore vi era il ritratto di una ragazza con i capelli nero corvino e lo sguardo spaventato. Le pupille erano talmente dilatate che sembrava avessero risucchiato nel loro profondo vuoto quasi tutto il verdastro dell’iride.

Non aveva nessuna intenzione di riconoscersi in quella giovane donna impaurita e priva di forze, la cosa non le piaceva per niente e non vedeva l’ora di potersene liberare.

Ebbe l’impulso di tuffarsi nello specchio, come se fosse acqua, di prendere la ragazza per il collo e di affogarla con le proprie mani, insistendo senza nessuna pietà fino al suo ultimo sussulto.

La odiava con tutta la sua anima e detestava quell’invincibile terrore che era diventato padrone assoluto del suo essere e despota incontrollato del suo corpo, come in uno stato totalitario che non permetteva repliche né libertà individuali.

L’istinto irrefrenabile di frantumare lo specchio con i pugni fino a farli sanguinare fu placato dal tipico sobbalzare dell’ascensore arrivato a destinazione e dalle porte automatiche che si aprirono scorrendo sui cardini cigolanti. […]







Ambientazione 1:

Il St. George Institute era stato fondato nei primi anni del Novecento come ricovero per persone con instabilità psicologica. La struttura ricordava esternamente i palazzi in stile vittoriano gotico, mentre l’interno era stato costruito sul modello ispirato a Kirkbride. Nel 1845, l’architetto Thomas Kirkbride aveva descritto la struttura ideale di un manicomio, influenzandone la costruzione dalla seconda metà dell’Ottocento. Era facile distinguere un istituto Kirkbride: imponente stile vittoriano, grande parco tutt’attorno e, spesso, c’era una fattoria nei paraggi dove i pazienti potevano lavorare per scopi terapeutici. Il St. George ricalcava quel modello, ma Buckler si chiese se anche nell’Ottocento apparisse così lugubre.
La struttura, abbandonata dagli anni Settanta, era rovinata dal tempo, dalla vegetazione e dai vandali. Molte finestre erano rotte, ma lo stesso non poteva dirsi delle grate. Nonostante il tempo, infatti, parevano ancora forti e robuste. Il parco era conservato allo stato brado, con piante ed erbacce che crescevano selvagge ricoprendo ogni cosa, dai primi gradini dell’ingresso alle panchine in pietra disposte qua e là lungo il sentiero che si snodava attorno all’istituto. Quando il cancello si aprì sotto la spinta di Buckler, il suo cigolio si diffuse acuto e straziante nel silenzio della zona, provocandogli un brivido. Alcuni corvi si misero a gracchiare prendendo il volo e il dottore trasalì.

Ambientazione 2:

Ethan prende il cellulare e con la torcia cerca di fare un po’ di luce. Il cono luminoso del display si posa violento, lacerando come una lama l’oscurità, e il ragazzo comincia a pensare che non sia una buona idea far sapere che sono lì a qualunque cosa avesse tentato di entrare nella stanza poco prima. Così decide di bloccare il cellulare, facendo ricadere nel buio l’ambiente.
Si ferma un istante, giusto il tempo di far abituare gli occhi all’oscurità, mentre Cliff e Sophy si avvicinano alla sua schiena. Un cigolio fa trattenere il respiro ai tre. È proprio lì, accanto a loro. Indietreggiano spaventati finendo con le spalle appoggiate al muro. Sophy prende in mano il suo cellulare e aziona la videocamera.
Una sedia a rotelle si sta muovendo a pochi metri da loro, sospinta da un tizio con la testa riversa sul torace e ciondolante.

Ambientazione 3:

Mentre sono indaffarati con la porta, un rumore metallico comincia a farsi sentire, rimbombando fra i corridoi deserti. È Sophy la prima a farlo notare.
«Ragazzi? Sentite anche voi?» sussurra e indietreggia verso la coppia di amici. I tre si fermano all’ascolto.
«Sembrano delle catene» dice Ethan a fil di voce. In quel momento, alcune mosche prendono a girare intorno a loro, sempre più numerose.
«Dobbiamo uscire da qui» dice Cliff, spaventato.
E l’antro dell’ospedale sembra averlo sentito, perché dal fondo dell’edificio, dalla stessa zona dove poco prima si era alzato il vento, un suono gutturale e profondo arriva dritto a loro facendo gelare il sangue nelle vene.







Estratto 1

Matthew è accanto a me, si tiene a distanza di qualche metro e sale a grandi passi il dorso della montagna. Sento tirare la ferita dietro la coscia, mentre cerco di non perdere terreno e di aggirare querce e lecci senza inciampare nei rami a terra. Sembrerebbero alberi secolari, invece non lo sono affatto. Fino a cinque anni fa non c’erano nemmeno.
Una folata di vento mi fa scivolare il cappuccio sulle spalle, l’aria gelida mi sferza il viso. Mi si scioglie il laccio di cuoio con cui ho fermato la treccia, che si disfa al vento e mi ricade sul petto in rosse ciocche ondulate. Mi fermo per raccogliere l’elastico improvvisato, Matthew si accorge della mia esitazione e si ferma, seppur mantenendosi a distanza.
Noto qualcosa di strano e mi siedo sui talloni avvicinandomi per vederlo meglio. Spostando la neve in superficie, mi accorgo della presenza della cima di un lampione caduto di cui si vede solo la lampada rotta; il resto è coperto da uno strato di terra ghiacciata. Spesso mi dimentico che, un tempo, questa foresta era la nostra città.
Specchiandomi nel lume rotto mi accorgo di avere delle macchie di sangue sul viso, quindi cospargo la guancia con un po’ di neve, la sfrego e mi asciugo con un lembo del mantello.
Mi alzo e cerco la fonte del vento fra gli alberi: la scogliera alla mia destra. Il posto in cui si sono sposati Et e Iris nel giorno in cui abbiamo perso tutto.


Estratto 2

«Specchio, specchio delle mie brame, chi è dissidente nel reame?» chiedo annoiata alla superficie che occupa quasi interamente la parete di fronte a me.
Non è altro che uno dei tanti specchi che riempiono la sala del trono del mio palazzo, ero stanca di vedere ghiaccio ovunque, così ho stipato alcune stanze di questi bellissimi oggetti. Piccoli, minuscoli, medi, grandi, a tutta parete: ne ho recuperati di tutti i tipi durante le corse con i lupi in mezzo alle rovine. Credo di avere una stanza, da qualche parte, piena di soli specchietti da cipria.
Sono i miei souvenir.
Mi acciglio, coprendomi gli occhi con le mani, mentre una fitta di dolore mi trapassa la testa. Cerco di ignorarla. Il frastuono di voci di sottofondo a ogni pensiero è ormai diventato per buona parte della giornata un rumore bianco al quale bado poco.
Sono arrivate da qualche mese, e quando non c’erano, le cose erano più semplici. Mi ponevo meno domande e ora insistono a parlare, parlare, parlare. Capita che mi incuriosiscano. La maggior parte delle volte invece cerco di ignorarle, non mi interessa cosa dicono.
Sono seduta su una poltrona di traverso e dondolo gli anfibi dal bracciolo opposto a quello a cui sono appoggiata con la schiena mentre Mana mi acconcia i capelli.
Ho un nuovo strappo nei jeans neri, deve avermelo provocato qualcuno, o qualcosa, durante l’ultima corsa. Infilo le dita nella fessura, allargando il tessuto elastico. Che noia, è così difficile trovare dei pantaloni decenti.


Estratto 3

«Ehi… è ora di svegliarsi» la voce segue una dolce pressione sulla spalla.
Sono su una coperta di lana, mi rigiro nel letto e la struttura a baldacchino in metallo cigola.
Mi accorgo che è ancora buio. Mi allungo, cercando Ondine senza trovarla. Sbircio nella stanza buia, dalle finestre del prefabbricato non filtra alcuna luce.
Sono al circo. Consiste in un’enorme tensostruttura rossa, all’interno della quale si svolgono gli allenamenti e, durante il fine settimana, gli spettacoli. Fa sempre il tutto esaurito. Il perimetro sul quale sostiamo è recintato e controllato giorno e notte da guardie, sul retro della struttura ci sono i prefabbricati in cui vivono sia le persone che lavorano per il circo che i figli dei proprietari. Non hanno dei veri e propri discendenti biologici: con questo nome descrivono gli orfani con capacità speciali, alcune volte Re o Regine in fasce, che vengono adottati e sfruttati a causa delle loro doti.
Ho visto solo una volta i proprietari, al momento della firma del contratto, e non mi piacciono per niente. Sembravano una coppia appena uscita dagli anni ’50, dai modi impeccabili.
Eppure i loro sorrisi di circostanza nascondevano denti aguzzi pronti a giudicarti, smembrarti, valutarti e sfruttarti.
«Ehi, bella addormentata» mi incalza Eagle. «Siamo quasi in ritardo!» mi accarezza la guancia con l’indice.
«Uff. Di già?» mi lamento mormorando con la voce impastata.
Mi copro la testa col cuscino e appena muovo le gambe sento una fitta alla coscia, ferita la settimana scorsa. Il taglio si è rimarginato in fretta grazie alla magia di Iris ma il dolore è rimasto, anche se si ripresenta solo quando faccio un movimento improvviso.
«Non sono io a obbligarti a svegliarti tutte le mattine alle cinque» mi ricorda. «E sono già le cinque e dieci!»
Sbricio da sotto il cuscino. Le coperte di pelliccia sono raccolte a terra, insieme ai miei vestiti, lui sta preparando il caffè con la macchinetta elettrica all’altro lato del monolocale.
«Non mi abituerò mai al caldo che crei, non ho nemmeno bisogno di accendere il fuoco e mi sembra di essere ai tropici» borbotta, togliendomi il cuscino dalla testa e porgendomi in cambio una tazza di caffè. «Mancherebbe solo un Margarita. Buongiorno, Fiammetta.»

Ragazzi spero che gli estratti vi siano piaciuti e soprattutto fatecelo sapere qui sotto con un commento.
Anche per stavolta abbiamo finito, vi saluto.
ciao ciao,
*Dana*


Nessun commento:

Posta un commento