Luoghi da sogno & Ambienti romanzeschi
Una Tripla Intervista- parte 2
Ciao a
tutti,
bentornati
qui su Codex Ludus. Ritorna la rubrica dedicata agli ambienti romanzeschi in
collaborazione con Dark Zone.
Se siete
stati al Lucca Comics forse avrete anche avuto l’opportunità di conoscere la
famiglia Dark Zone se invece siete stati sfortunati come me e vi siete presi
tanta pioggia allora sarà per la prossima fiera.
Ma bando
alle ciance iniziamo subito con l’intervista alle nostre autrici: Giovanna Avignoni, Barbara Parodi e Debora Mayfair!
1. Dove è ambientato il tuo romanzo?
Perché lo hai scelto?
Giovanna: Nel romanzo non faccio
menzione diretta al luogo geografico. Si percepisce che si tratta di un luogo
di mare da alcuni piccoli dettagli enunciati durante la narrazione. Che,
invece, si tratti del mare di Roma, si percepisce dai dialoghi di due
personaggi secondari.
Debora: È ambientato in un futuro distopico, in cui il
mondo è a un passo dal Ragnarök e la foresta di ferro ha preso il sopravvento.
È un mondo segnato da un inverno perenne in cui Re, Regine, Streghe e Stregoni
hanno delle possibilità in più di sopravvivere, grazie ai poteri di cui sono
dotati.
Barbara: Il mio romanzo è ambientato in Colorado, in un piccolo
paese. L’ho scelto per una questione puramente casuale: cercavo una location
per la storia e ho puntato il dito sulla mappa: Colorado. La scelta del paese
mi ha richiesto più tempo perché volevo qualcosa il cui nome mi piacesse e mi
suonasse bene fin da subito.
2. Da cosa è ispirata l’ambientazione?
Giovanna: L’ambientazione si ispira ai
luoghi e agli ambienti della mia quotidianità.
Debora: Ho pensato a cosa comporterebbe vivere in un mondo
governato da una despota sull’orlo del delirio, con il potere gelido derivatole
dalla luna nel sangue.
Barbara: Credo sia ispirata alla lunga tradizione dei manicomi
come luoghi infestati e spaventosi. Certo, una parte della scelta è stata
dettata da esperienze personali, quando da adolescente si fanno quelle sciocchezze
del tipo “Dai, entriamo in quel luogo abbandonato, cosa vuoi che accada?”
L’idea di un istituto buio e dei suoi corridoi lunghi mi è
sempre sembrata spaventosa già di suo e l’ho voluta usare per Segui le mosche.
3. Hai mai pensato di scriverlo in un
altro tempo o luogo arrivando a cambiare genere al tuo romanzo? (es.
ambientazione fantastica, fantascientifica, immaginaria, in un mondo distopico,
in quello attuale, ecc)
Giovanna: Sinceramente, non mi è mai
capitato di pensarlo in altra situazione.
Debora: Ci ho pensato durante la stesura dei primi volumi
della serie, infatti sono ambientati nel nostro presente, mentre per il terzo
si cambia registro.
Barbara: Riscriverlo cambiandone il genere no, ma luogo sì. Ho
pensato più volte di ambientarlo in Italia e di rendere omaggio al mio paese.
Tuttavia, mi sono detta che quando una storia nasce in un modo deve rimanere
così. Avrò tempo per scrivere horror ambientati nella Pianura Padana – cosa che
del resto sto già facendo.
4. Riesci ad immaginare la tua storia
nel passato?
Giovanna: La storia sulla quale ruota
il mio romanzo, potrebbe essere adatta anche al passato. Si tratta di violenza
fisica e psicologica su una bambina e, purtroppo, è storia vecchia quanto
vecchio è il mondo.
Debora: Certo, le basi che spiegano le dinamiche delle
relazioni che legano i protagonisti affondano le radici in fiabe e miti antichi.
Barbara: Sì. Con l’accortezza di cambiare qualche dettaglio
potrebbe tranquillamente essere ambientata anche nell’Ottocento.
5. Riesci ad immaginare la tua storia
nel futuro?
Giovanna: Spero che il futuro liberi i
deboli e i bambini dai soprusi e dalle violenze, per questo vorrei non
immaginare la storia nel futuro.
Debora: Sì, potrebbe svolgersi anche nel futuro.
Barbara: Non lo so. Forse in una società futuristica avrebbero
strumenti e mezzi più avanzati per dimostrare l’inesistenza del paranormale,
per esempio.
6. Tre posti in cui vorresti ambientare
i tuoi prossimi libri?
Giovanna:
1)
Mare, perché mi aiuterebbe nelle
descrizioni e nelle percezioni.
2)
Una stanza, per mettermi alla prova sulla
capacità di sfondarne i muri.
3)
La borsa di una donna, perché dentro c’è il
mondo intero.
Debora: Ho scritto dei romanzi ambientati a Parigi, a New
York e in Irlanda… per il prossimo volume mi piacerebbe mettermi alla prova
indicando un punto a caso del mappamondo e ambientando lì la nuova storia.
Barbara: Sicuramente la Pianura Padana. Vivo accanto al fiume
Lambro e le campagne qui attorno offrono scorci molto belli e molto
inquietanti, quindi direi che per le prossime storie attingerò ai paeselli
limitrofi o quello in cui vivo io. Scrivendo horror mi piacerebbe che i
prossimi luoghi cardine fossero una casa, un bosco e un vecchio cascinale.
Non possono poi mancare gli estratti quindi non scappate via subito
[…] Stesa su una
barella del pronto soccorso, Gloria era intontita e dolorante.
Ricordava poco di quanto le fosse accaduto. Aveva
soltanto una vaga reminiscenza di una caduta improvvisa, avvenuta senza aver
inciampato o aver messo un piede in fallo.
Era sola, stesa su una brandina scomoda, con la
mente confusa, i ricordi che si rincorrevano senza giungere a destinazione e la
spalla e il braccio che le pulsavano in maniera atroce.
Intorno c’erano altre persone stese sulle
brandine o su letti di fortuna e coperte in malo modo dai teli verdi, tutte
nello stesso enorme ambiente illuminato da luci al neon per niente riposanti. Alcune
urlavano e maledicevano il mondo e il cielo a voce troppo alta; altre
sopportavano l’attesa e il dolore in un dignitoso silenzio.
Le spie dei macchinari scandivano il tempo
immobile in quella stanza che odorava di disinfettante e sudore. […]
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[…] Nello studiolo che
affacciava sulla piazza, posto su un vecchio cavalletto di legno, c’era un
quadro non ancora completato. Era in quella stanza da parecchio tempo e
sembrava aspettarla con la pazienza di un amico silenzioso.
Lo guardò compiaciuta, reclinando la testa verso
sinistra come per inquadrare meglio la figura di donna che, grazie al suo
attento lavoro, aveva preso pian piano una forma ben definita su quella che a
lungo era stata solo una tela bianca.
Vi era ritratto il volto di una ragazza avvolto
da un boa di piume di struzzo dai tenui toni color pastello. La giovane
guardava lontano verso un punto indefinito. Lo sguardo sembrava pensieroso e la
bocca era chiusa, come se dovesse trattenere un dolore. La mano destra
accarezzava il collo, pareva quasi che la fanciulla del quadro cercasse
conforto o addirittura protezione da quel tocco delicato.
Gloria aveva deciso di dipingere di nero lo
sfondo della sua opera. Pensava che in quel modo avrebbe dato maggior luce alla
figura mettendo in risalto la malinconia e la solitudine che era intenzionata a
rappresentare.
La ragazza del quadro era lei, Gloria lo sapeva,
anche se non le somigliava. Era giovane e bella, ma del tutto indifesa,
schiacciata da un buio totale, da una tristezza spaventosa e spettrale.
Il sole stava oltre, lontano, insieme alla luce
che non splendeva all’interno della tela quasi ultimata.
I capelli rossi e un poco mossi non avevano nulla
a che vedere con il nero corvino di quelli di Gloria e l’eccentrico
abbigliamento non era per nulla simile alle maglie larghe che lei era solita
indossare. In comune avevano soltanto quel senso di solitudine e di
incompletezza che la faceva stare così male. […]
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[…] Con il fiato ancora corto e le spalle abbandonate sul portone ben
chiuso, guardava lo spazio intorno a sé come se quello fosse un luogo di
salvezza. Era arrivata alla sua isola che la rendeva naufraga senza scampo.
Questa volta decise
di salire al piano con l’ascensore perché era ancora troppo turbata e tremante
e, per questo motivo, non era del tutto certa di poter sostenere il peso della
carrozzina e del suo meraviglioso contenuto.
Sentiva che le
gambe non l’avrebbero sorretta più di tanto, rischiando di cadere per le scale
con Clelia. Avrebbe voluto piangere e urlare e, se con lei nell’ascensore non
ci fosse stata anche sua figlia, avrebbe gridato forte la propria rabbia fino a
tirarla fuori da se stessa e a scaraventarla con energia contro lo specchio
consumato che, senza alcuna clemenza né finte parole, le mostrava la sua
immagine sconvolta.
Nello specchio dell’ascensore
vi era il ritratto di una ragazza con i capelli nero corvino e lo sguardo
spaventato. Le pupille erano talmente dilatate che sembrava avessero
risucchiato nel loro profondo vuoto quasi tutto il verdastro dell’iride.
Non aveva nessuna
intenzione di riconoscersi in quella giovane donna impaurita e priva di forze,
la cosa non le piaceva per niente e non vedeva l’ora di potersene liberare.
Ebbe l’impulso di
tuffarsi nello specchio, come se fosse acqua, di prendere la ragazza per il
collo e di affogarla con le proprie mani, insistendo senza nessuna pietà fino
al suo ultimo sussulto.
La odiava con tutta
la sua anima e detestava quell’invincibile terrore che era diventato padrone
assoluto del suo essere e despota incontrollato del suo corpo, come in uno
stato totalitario che non permetteva repliche né libertà individuali.
L’istinto
irrefrenabile di frantumare lo specchio con i pugni fino a farli sanguinare fu
placato dal tipico sobbalzare dell’ascensore arrivato a destinazione e dalle
porte automatiche che si aprirono scorrendo sui cardini cigolanti. […]
Ambientazione 1:
Il St. George Institute era stato
fondato nei primi anni del Novecento come ricovero per persone con instabilità
psicologica. La struttura ricordava esternamente i palazzi in stile vittoriano
gotico, mentre l’interno era stato costruito sul modello ispirato a Kirkbride.
Nel 1845, l’architetto Thomas Kirkbride aveva descritto la struttura ideale di
un manicomio, influenzandone la costruzione dalla seconda metà dell’Ottocento.
Era facile distinguere un istituto Kirkbride: imponente stile vittoriano,
grande parco tutt’attorno e, spesso, c’era una fattoria nei paraggi dove i
pazienti potevano lavorare per scopi terapeutici. Il St. George ricalcava quel
modello, ma Buckler si chiese se anche nell’Ottocento apparisse così lugubre.
La struttura, abbandonata dagli anni
Settanta, era rovinata dal tempo, dalla vegetazione e dai vandali. Molte
finestre erano rotte, ma lo stesso non poteva dirsi delle grate. Nonostante il
tempo, infatti, parevano ancora forti e robuste. Il parco era conservato allo
stato brado, con piante ed erbacce che crescevano selvagge ricoprendo ogni
cosa, dai primi gradini dell’ingresso alle panchine in pietra disposte qua e là
lungo il sentiero che si snodava attorno all’istituto. Quando il cancello si
aprì sotto la spinta di Buckler, il suo cigolio si diffuse acuto e straziante
nel silenzio della zona, provocandogli un brivido. Alcuni corvi si misero a
gracchiare prendendo il volo e il dottore trasalì.
Ambientazione 2:
Ethan prende il cellulare e con la torcia cerca di fare un
po’ di luce. Il cono luminoso del display si posa violento, lacerando come una
lama l’oscurità, e il ragazzo comincia a pensare che non sia una buona idea far
sapere che sono lì a qualunque cosa avesse tentato di entrare nella stanza poco
prima. Così decide di bloccare il cellulare, facendo ricadere nel buio
l’ambiente.
Si ferma un istante, giusto il tempo di far abituare gli
occhi all’oscurità, mentre Cliff e Sophy si avvicinano alla sua schiena. Un
cigolio fa trattenere il respiro ai tre. È proprio lì, accanto a loro.
Indietreggiano spaventati finendo con le spalle appoggiate al muro. Sophy
prende in mano il suo cellulare e aziona la videocamera.
Una sedia a rotelle si sta muovendo a pochi metri da loro,
sospinta da un tizio con la testa riversa sul torace e ciondolante.
Ambientazione 3:
Mentre sono indaffarati con la porta, un rumore metallico
comincia a farsi sentire, rimbombando fra i corridoi deserti. È Sophy la prima
a farlo notare.
«Ragazzi? Sentite anche voi?» sussurra e indietreggia verso
la coppia di amici. I tre si fermano all’ascolto.
«Sembrano delle catene» dice Ethan a fil di voce. In quel
momento, alcune mosche prendono a girare intorno a loro, sempre più numerose.
«Dobbiamo uscire da qui» dice Cliff, spaventato.
E l’antro dell’ospedale sembra averlo sentito, perché dal
fondo dell’edificio, dalla stessa zona dove poco prima si era alzato il vento,
un suono gutturale e profondo arriva dritto a loro facendo gelare il sangue
nelle vene.
Estratto 1
Matthew è accanto a me, si
tiene a distanza di qualche metro e sale a grandi passi il dorso della
montagna. Sento tirare la ferita dietro la coscia, mentre cerco di non perdere
terreno e di aggirare querce e lecci senza inciampare nei rami a terra.
Sembrerebbero alberi secolari, invece non lo sono affatto. Fino a cinque anni
fa non c’erano nemmeno.
Una folata di vento mi fa scivolare
il cappuccio sulle spalle, l’aria gelida mi sferza il viso. Mi si scioglie il
laccio di cuoio con cui ho fermato la treccia, che si disfa al vento e mi
ricade sul petto in rosse ciocche ondulate. Mi fermo per raccogliere l’elastico
improvvisato, Matthew si accorge della mia esitazione e si ferma, seppur
mantenendosi a distanza.
Noto qualcosa di strano e mi siedo
sui talloni avvicinandomi per vederlo meglio. Spostando la neve in superficie,
mi accorgo della presenza della cima di un lampione caduto di cui si vede solo
la lampada rotta; il resto è coperto da uno strato di terra ghiacciata. Spesso
mi dimentico che, un tempo, questa foresta era la nostra città.
Specchiandomi nel lume rotto mi
accorgo di avere delle macchie di sangue sul viso, quindi cospargo la guancia
con un po’ di neve, la sfrego e mi asciugo con un lembo del mantello.
Mi alzo e cerco la fonte del vento
fra gli alberi: la scogliera alla mia destra. Il posto in cui si sono sposati
Et e Iris nel giorno in cui abbiamo perso tutto.
Estratto 2
«Specchio, specchio delle mie brame,
chi è dissidente nel reame?» chiedo annoiata alla superficie che occupa quasi
interamente la parete di fronte a me.
Non è altro che uno dei tanti
specchi che riempiono la sala del trono del mio palazzo, ero stanca di vedere
ghiaccio ovunque, così ho stipato alcune stanze di questi bellissimi oggetti.
Piccoli, minuscoli, medi, grandi, a tutta parete: ne ho recuperati di tutti i
tipi durante le corse con i lupi in mezzo alle rovine. Credo di avere una
stanza, da qualche parte, piena di soli specchietti da cipria.
Sono i miei souvenir.
Mi acciglio, coprendomi gli occhi
con le mani, mentre una fitta di dolore mi trapassa la testa. Cerco di
ignorarla. Il frastuono di voci di sottofondo a ogni pensiero è ormai diventato
per buona parte della giornata un rumore bianco al quale bado poco.
Sono arrivate da qualche mese, e
quando non c’erano, le cose erano più semplici. Mi ponevo meno domande e ora
insistono a parlare, parlare, parlare. Capita che mi incuriosiscano. La maggior
parte delle volte invece cerco di ignorarle, non mi interessa cosa dicono.
Sono seduta su una poltrona di
traverso e dondolo gli anfibi dal bracciolo opposto a quello a cui sono
appoggiata con la schiena mentre Mana mi acconcia i capelli.
Ho un nuovo strappo nei jeans neri,
deve avermelo provocato qualcuno, o qualcosa, durante l’ultima corsa. Infilo le
dita nella fessura, allargando il tessuto elastico. Che noia, è così difficile
trovare dei pantaloni decenti.
Estratto 3
«Ehi… è ora di svegliarsi» la voce
segue una dolce pressione sulla spalla.
Sono su una coperta di lana, mi
rigiro nel letto e la struttura a baldacchino in metallo cigola.
Mi accorgo che è ancora buio. Mi
allungo, cercando Ondine senza trovarla. Sbircio nella stanza buia, dalle
finestre del prefabbricato non filtra alcuna luce.
Sono al circo. Consiste in
un’enorme tensostruttura rossa, all’interno della quale si svolgono gli
allenamenti e, durante il fine settimana, gli spettacoli. Fa sempre il tutto
esaurito. Il perimetro sul quale sostiamo è recintato e controllato giorno e
notte da guardie, sul retro della struttura ci sono i prefabbricati in cui vivono
sia le persone che lavorano per il circo che i figli dei proprietari. Non hanno
dei veri e propri discendenti biologici: con questo nome descrivono gli orfani
con capacità speciali, alcune volte Re o Regine
in fasce, che vengono adottati e sfruttati a causa delle loro doti.
Ho visto solo una volta i
proprietari, al momento della firma del contratto, e non mi piacciono per
niente. Sembravano una coppia appena uscita dagli anni ’50, dai modi
impeccabili.
Eppure i loro sorrisi di
circostanza nascondevano denti aguzzi pronti a giudicarti, smembrarti,
valutarti e sfruttarti.
«Ehi, bella addormentata» mi incalza
Eagle. «Siamo quasi in ritardo!» mi
accarezza la guancia con l’indice.
«Uff. Di già?» mi lamento mormorando con la voce impastata.
Mi copro la testa col cuscino e
appena muovo le gambe sento una fitta alla coscia, ferita la settimana scorsa.
Il taglio si è rimarginato in fretta grazie alla magia di Iris ma il dolore è
rimasto, anche se si ripresenta solo quando faccio un movimento improvviso.
«Non sono io a obbligarti a
svegliarti tutte le mattine alle cinque» mi ricorda. «E sono già le cinque e
dieci!»
Sbricio da sotto il cuscino. Le
coperte di pelliccia sono raccolte a terra, insieme ai miei vestiti, lui sta
preparando il caffè con la macchinetta elettrica all’altro lato del monolocale.
«Non mi abituerò mai al caldo che
crei, non ho nemmeno bisogno di accendere il fuoco e mi sembra di essere ai
tropici» borbotta, togliendomi il cuscino dalla testa e porgendomi in cambio
una tazza di caffè. «Mancherebbe solo
un Margarita. Buongiorno, Fiammetta.»
Ragazzi spero che gli estratti vi siano piaciuti e soprattutto fatecelo sapere qui sotto con un commento.
Anche per stavolta abbiamo finito, vi saluto.
ciao ciao,
*Dana*
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